Il Sì al referendum avrebbe ridotto davvero la precarietà del lavoro?
Il quesito n. 3 del referendum 2025 puntava a reintrodurre l’obbligo di causale nei contratti a termine brevi. Ma tornare al passato è davvero la strada giusta per ridurre una precarietà che evolve, cambia forma, si fa più subdola?
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di Valentina Ciannamea
Giornalista esperta di mondi digitali con un background da sociologa

Combattere la precarietà. Era questo l’obiettivo dichiarato del quesito n° 3 del referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno 2025. Un quesito che rientrava tra i quattro dedicati al lavoro — il quinto riguardava invece la cittadinanza italiana — e che puntava a modificare le regole sui contratti a tempo determinato. Sappiamo com’è andata. L’affluenza definitiva si è fermata al 30,6% degli aventi diritto, ben al di sotto della soglia del 50% + 1 necessaria per la validità del referendum. Di conseguenza, nessuno dei cinque quesiti – compreso il numero 3 – è stato approvato e le norme restano quelle attualmente in vigore.
Ma la vittoria Sì avrebbe ridotto davvero il precariato? Sarebbe cambiato qualcosa per le migliaia di lavoratori che vivono in bilico tra un rinnovo e l’altro? Lo abbiamo chiesto a Luciano Canova, economista e divulgatore.
Cos‘è questa causale per i contratti a tempo determinato?
Il quesito 3 proponeva di ripristinare l’obbligo della causale per i contratti a tempo determinato inferiori ai 12 mesi. Oggi, infatti, un datore di lavoro può assumere senza dover spiegare il motivo: niente picco produttivo, nessuna sostituzione, nessuna ragione specifica. E questo può tradursi in turnover continuo, contratti brevi che si susseguono, nessuna prospettiva di stabilizzazione.
Storicamente, l’obbligo della causale è stato un tira e molla legislativo:
- abolito nel 2015 con il Jobs Act,
- reintrodotto nel 2018 dal decreto Dignità del governo Conte,
- eliminato di nuovo nel 2023 dal governo Meloni per i contratti sotto i 12 mesi, e modificato per quelli tra i 12 e i 24 mesi.
Il referendum voleva tornare al passato: causale obbligatoria sempre. “Sì, ma sarebbe servito davvero?” Per Luciano Canova, la risposta è netta: “Onestamente, credo poco”. «Oggi c’è un tentativo — legittimo — di trovare un equilibrio tra flessibilità e diritti. L’idea della causale è uno strumento qualitativo, ma nella pratica è debole. E resta da vedere come avrebbe retto davanti a eventuali cause in tribunale».
In altre parole: una buona intenzione, ma poca sostanza. Secondo Canova, la direzione più utile sarebbe lavorare sui limiti quantitativi — ad esempio il numero massimo di contratti a termine — più che sulle motivazioni.
Ma quanto precariato c’è davvero in Italia?
I numeri parlano chiaro: 2,3 milioni di persone hanno un contratto a tempo determinato. Ma, sottolinea Canova, i rapporti a termine in Italia sono circa il 15%, in linea con la media europea. Insomma, non è la quantità il problema. Il nodo è la qualità del lavoro offerto, la possibilità di crescita, il valore aggiunto delle posizioni disponibili.
E qui torna il dubbio: serve più flessibilità o più tutele? Per Canova, «la flessibilità non è il nemico. Il punto è usarla dentro un modello che offra anche protezione, diritti, percorsi chiari». Il rischio, altrimenti, è restare fossilizzati su strumenti vecchi, mentre la precarietà evolve, cambia forma, si fa più subdola.
Il quesito numero 3 del referendum sul lavoro, insomma, riportava l’attenzione su un tema centrale: la precarietà. Ma lo faceva con uno strumento forse più simbolico che risolutivo. Nel frattempo, il mercato del lavoro evolve, tra piattaforme digitali, freelance, partite IVA e nuove forme di subordinazione. Il vero tema, forse, è ripensare le regole del gioco, non solo tornare a quelle vecchie.