Tanti scioperi, pochi risultati: il Primo maggio e la crisi del lavoro
Nel giorno dedicato alla celebrazione del lavoro emerge una contraddizione sempre più evidente: mentre in molti Paesi cresce il potere d’acquisto dei lavoratori grazie a modelli di contrattazione pacifici ed efficaci, in Italia si moltiplicano gli scioperi ma i risultati tardano ad arrivare. Il confronto internazionale, dai negoziati silenziosi del Giappone agli aumenti salariali ottenuti in Francia, solleva una domanda scomoda ma necessaria: è lo sciopero ad aver perso forza, o è l’Italia a non saperlo più gestire in modo utile per i lavoratori?
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Ha ancora senso celebrare il Primo maggio? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prima fare un salto dall’altra parte del mondo. Ogni primavera, dal 1954 a questa parte, in Giappone si festeggia. E no, non ha niente a che fare con i tradizionali fiori di ciliegio, che pure proprio in questo periodo adornano le strade del Sol Levante. Si tratta, piuttosto, del cosiddetto shunto: un grande evento che prevede una serrata serie di negoziazioni collettive tra sindacati e aziende. A guidare le attività è Rengo, la Confederazione dei Sindacati giapponesi che rappresenta circa 7 milioni di lavoratori e che quest’anno ha ottenuto per loro un aumento salariale del 5,4%: il dato più alto degli ultimi 34 anni, di poco superiore al 5,1% registrato lo scorso anno.
Oltre alla sua effettiva efficacia, ciò che rende così singolari i giorni dello shunto è l’assoluta mancanza di manifestazioni di piazza, contestazioni plateali o dibattiti dai toni accesi. Tutto si svolge all’insegna di una pace sociale che persegue come scopo quello di accantonare, di comune accordo, ogni genere di lotta. E se è vero che gli effetti dell’inflazione ancora in corso e delle crisi che si sono succedute nell’ultimo ventennio – da quella dei subprime alla pandemia – contribuiscono a mitigare parzialmente i risultati di questa misura economica, è altrettanto indicativo di quanto un fattore culturale possa incidere profondamente sul tessuto produttivo.
La crescita economica in Corea
A poco più di un’ora di volo da Tokyo, qualcosa di molto simile si è verificato in Corea del Sud. Paese nel quale, addirittura, i salari reali hanno conosciuto un incremento, rispetto al 2008, del 20%. Ciò che di recente si è verificato all’interno di uno dei colossi dell’economia coreana, ovvero Samsung Electronics, è davvero emblematico. Come spiega questo articolo di Reuters, all’inizio di marzo i membri della National Samsung Electronics Union (NSEU), che formano circa il 30% della forza lavoro dell’azienda, hanno ottenuto un aumento salariale del 5,1% dopo un accordo bilaterale con i vertici dell’impresa.
Le trattative, andate avanti per quasi un anno, non hanno minimamente intaccato il flusso produttivo, in un momento decisamente cruciale per Samsung, che da principale produttore mondiale dei chip di memoria si sta destreggiando per far fronte alla concorrenza nel settore dei semiconduttori utilizzati per applicazioni di intelligenza artificiale (IA).
Come se la cava l’Italia?
Nel frattempo, il potere d’acquisto degli italiani, negli ultimi vent’anni, è in picchiata. A sancire questo stato di cose tutt’altro che lusinghiero è il recente rapporto dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), che ha certificato come i salari reali nel nostro paese siano inferiori dell’8,7% rispetto ai livelli che si registravano nel 2008. Un dato che penalizza, soprattutto, i lavoratori a basso reddito e che ci pone come assoluti fanalini di coda tra le nazioni del G20. Per avere un’idea, nello stesso arco temporale, la Spagna ha contenuto le perdite al 4,5% e il Regno Unito al 2,5%. Tra le nazioni che hanno fatto peggio, subito dopo l’Italia, figura proprio il Giappone. Che tuttavia, come abbiamo visto, sembra aver imboccato il viale di una decisa inversione di tendenza.
Più scioperi che risultati
La prassi di contrattazione delle economie asiatiche appare quasi come un profondo paradosso, se si guarda al contesto italiano, nel quale lo sciopero, e il disagio che ne segue, è una realtà all’ordine del giorno. IlSole24Ore ha calcolato che nel nostro paese, nel 2024, sono stati indetti in media 51 scioperi al mese. Più di uno e mezzo al giorno. E consultando l’elenco in continuo aggiornamento fornito dal Ministero dell’Interno, non soltanto è possibile già da ora accertarsi di quali siano quelli previsti da qui ai prossimi due mesi, ma anche constatare che è coinvolto praticamente ogni settore, sia pubblico che privato: dal trasporto locale alle ferrovie, passando per la Pubblica Amministrazione, il personale addetto alla sicurezza stradale, il comparto istruzione, gli avvocati.
Il costo degli scioperi
Si tratta, insomma, di un’insoddisfazione trasversale, che, però, almeno a giudicare dai dati, non riesce ad avere un’effettiva ricaduta sui portafogli dei cittadini e sulla stagnazione degli stipendi. Oltre al danno, poi, si aggiunge la proverbiale beffa. Perché sciopero fa anche rima con costo. Ecco allora che, ad esempio, per un docente della scuola secondaria di secondo grado una giornata di astensione lavorativa equivale ad una perdita di circa 70 euro. E se si guarda ad altri settori, come ad esempio il trasporto pubblico locale, sommando diversi fattori come l’anzianità e gli specifici accordi interi ad ogni azienda, il totale può lievitare fino a 120 euro. Senza dimenticare che, secondo quanto stabilito dalla maggior parte dei CCNL, durante lo sciopero non vi è alcuna maturazione del diritto alla tredicesima mensilità.
Il Primo maggio: è davvero una festa?
Nel giorno che dovrebbe celebrare i lavoratori, viene dunque da chiedersi in che modo il riconoscimento sul calendario del loro contributo possa andare di pari passo con delle condizioni professionali tutt’altro che esaltanti. E se le modalità di aperto confronto adottate in Asia non sembrano praticabili in Occidente, almeno nel breve termine, qualche riflessione andrebbe fatta sullo sciopero in quanto tale. Perché, in Francia, che in anni recenti, secondo i dati dell’European Trade Union Institute elaborati da Euronews, ha registrato persino più manifestazioni dell’Italia, si è assistito ad un aumento dei salari e del potere d’acquisto del 5% rispetto alla base del 2008? È lo strumento dello sciopero ad essere sostanzialmente inefficace? O è il contesto italiano ad invalidarne i possibili benefici?