Perché in Italia il job hopping è l’unico modo per guadagnare di più
In Italia, dove gli stipendi restano bassi, il job hopping, ovvero cambiare spesso lavoro o posto di lavoro, diventa una strategia per guadagnare di più. Ma è davvero una scelta strategica? Pro e contro economici del cambiare spesso lavoro.
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di Valentina Ciannamea
Giornalista esperta di mondi digitali con un background da sociologa

C’è chi lo chiama instabilità, chi invece lo considera un atto di sopravvivenza. In un mercato del lavoro sempre più frammentato, il fenomeno del job hopping – ovvero il cambio frequente di lavoro – riguarda una fetta crescente della popolazione attiva. Un comportamento che, se fino a pochi anni fa era visto con sospetto, oggi sta diventando una risposta concreta a un contesto economico in cui la stabilità spesso non è più una scelta, ma un’illusione.
Cos’è il job hopping e chi lo pratica?
Il job hopping indica il cambio frequente di lavoro, spesso ogni 1-3 anni. Chi lo pratica viene definito “job hopper”, termine meno diffuso in Italia ma ampiamente utilizzato nei contesti anglosassoni. Il job hopper non è necessariamente un lavoratore instabile, ma piuttosto un professionista che sceglie di muoversi alla ricerca di condizioni migliori: stipendi più alti, ambienti più stimolanti, ruoli più coerenti con le proprie competenze.
Non è un caso che il job hopping sia particolarmente diffuso tra i giovani sotto i 35 anni, ma stia cominciando a interessare anche fasce più adulte del mercato del lavoro, spinte dall’insoddisfazione economica e dal bisogno di ripensare il proprio percorso professionale.
In Italia, cambiare spesso lavoro è (quasi) una necessità
Nel nostro Paese il job hopping è spesso associato a una strategia di incremento salariale. In un sistema dove gli aumenti interni sono lenti, se non del tutto assenti, cambiare azienda resta una delle poche leve efficaci per ottenere una retribuzione più alta. Secondo una recente analisi di Randstad, sono quasi un milione i lavoratori italiani che hanno cambiato lavoro nell’ultimo anno, in parte spinti dalla voglia di crescita, in parte dalla necessità economica.
Un dato interessante è che questo fenomeno è più visibile nei settori digitali e tech, dove la richiesta di profili qualificati supera l’offerta e la mobilità è considerata parte integrante della carriera. In altri settori, però, il job hopping è ancora visto con diffidenza, soprattutto da parte dei datori di lavoro tradizionali.
I recruiter stanno cambiando prospettiva?
Nonostante i pregiudizi ancora presenti, una parte dei recruiter sta iniziando a vedere nel job hopper una risorsa. Flessibilità, rapidità di apprendimento, spirito di adattamento: sono tutte qualità che emergono da un percorso non lineare ma ricco di esperienze diverse. In un mondo del lavoro che richiede sempre più soft skill e capacità di reinventarsi, un curriculum con diversi cambi può essere letto come un segnale di dinamismo e ambizione.
Il job hopping, quindi, può essere apprezzato se accompagnato da una narrazione coerente: ogni salto deve avere una direzione, una motivazione chiara e un obiettivo professionale.
Pro e contro economici
Vantaggi economici:
- Cambiando lavoro si può ottenere un aumento salariale del 10-20% a salto, contro aumenti interni che raramente superano il 2-3% annuo.
- Si accede più facilmente a benefit extra (welfare, smart working, formazione) spesso negati ai dipendenti storici.
- È una strategia utile per chi parte da stipendi bassi e ha poche possibilità di crescita interna.
Svantaggi:
- Può mancare la continuità contributiva, con effetti negativi su pensione e ammortizzatori sociali.
- Le aziende più tradizionali possono leggere questi cambi come mancanza di affidabilità o impegno.
- C’è il rischio di rimanere incastrati in una logica di fuga, senza costruire una vera identità professionale.
Il job hopping è il futuro?
In un’Italia che fatica ancora a garantire stipendi dignitosi e percorsi di carriera stabili, il job hopping è oggi una delle poche leve di autodeterminazione economica. È una risposta individuale a un problema sistemico: la mancanza di meritocrazia, di riconoscimento e di fiducia nei giovani professionisti.
Se gestito con consapevolezza, può diventare un atto di strategia più che un sintomo di irrequietezza. Perché, in fondo, cambiare lavoro spesso non significa non sapere cosa si vuole, ma sapere esattamente quanto si vale.