Cosa ci ha insegnato il caso Labubu?
Perché alcuni oggetti diventano improvvisamente irresistibili, scatenando file, acquisti compulsivi e un mercato parallelo che dura poche settimane? Il neuromarketing offre una risposta chiara: non desideriamo davvero ciò che compriamo, ma le emozioni che associamo a quell’acquisto. Il caso, ormai passato, dei Labubu è stato uno degli esempi più evidenti di come ricompensa variabile, scarsità e dinamiche social possano trasformare un semplice pupazzo in un fenomeno di culto. Analizzare oggi quel boom effimero ci aiuta a capire non solo come funzionano le mode, ma soprattutto come funzioniamo noi.
Tempo di lettura: 4 minuti
di Elena Carbone
Psicologa e psicoterapeuta esperta in traumi. Con l’account Instagram La psicologa volante fa divulgazione sul rapporto tra psiche e soldi.
Negli ultimi anni il neuromarketing è uscito dalle stanze degli esperti per diventare una chiave di lettura utile a capire molte mode istantanee, quelle che compaiono dal nulla, esplodono e si dissolvono con la stessa rapidità. La ragione è che spesso il desiderio irrefrenabile di acquistare qualcosa, anche a prezzi folli, non è dovuta alla sua utilità o alla sua bellezza, ma a ciò che rappresenta per noi e per la comunità a cui vorremmo appartenere. Per comprendere come funzionano questi meccanismi, non serve guardare all’alta finanza o al lusso tradizionale: basta osservare ciò che è accaduto qualche mese fa con i Labubu, un fenomeno diventato virale e poi sgonfiatosi quasi altrettanto velocemente.
Nonostante oggi se ne parli molto meno, il caso Labubu resta un esempio emblematico di come il neuromarketing possa trasformare un oggetto semplice – una bambolina con un’espressione un po’ disturbante – in un simbolo di appartenenza, desiderio e speculazione.
Labubu, un simbolo di appartenenza
In Italia il prezzo di un Labubu nuovo parte da circa 22 euro e può arrivare a più di 500 euro. Nonostante il prezzo di partenza non sia eccessivo, la scarsità e la blind box – l’acquisto alla cieca – ne hanno determinato una bolla speculativa così che alcuni esemplari a grandezza umana hanno raggiunto i 130.000 euro all’asta. Il design eccentrico è stato molto apprezzato da cantanti e influencer che hanno fatto di queste bamboline uno status symbol.
Non si tratta soltanto di moda, ma di un segnale di appartenenza a una cerchia ristretta: possedere un Labubu raro o costoso era un modo per comunicare di far parte di un gruppo esclusivo di collezionisti e appassionati, capaci di riconoscere e apprezzare i pezzi più ambiti. In questo senso, il Labubu non era più solo un giocattolo, ma un “capitale investito”: un oggetto che, al pari di un accessorio di lusso, rafforza l’immagine sociale di chi lo possiede e dichiara, in modo implicito, la possibilità di investire cifre considerevoli per un bene superfluo, ma desiderato.
Ricompensa variabile, tensione dell’attesa e il picco della sorpresa
Il marketing di questo prodotto ha fatto leva su uno dei pilastri del neuromarketing: il meccanismo della ricompensa variabile. Le blind box, le scatole chiuse che non permettono di conoscere in anticipo quale personaggio si sta acquistando, generano una doppia reazione emotiva: prima la tensione dell’attesa, poi il rilascio di dopamina al momento dell’apertura. È lo stesso schema psicologico che sostiene i gratta e vinci: sappiamo che la probabilità di “trovare il pezzo raro” è minima, ma la sola possibilità attiva un circolo vizioso che spinge a ripetere l’acquisto.
Nell’epoca in cui tutto è condiviso e l’unboxing fa parte delle routine delle influencer, condividere sui social la gioia o la delusione nel momento dell’apertura della scatola amplifica il desiderio di averla. La blind box è quindi un’idea geniale che pone al centro non tanto il Labubu in sé quanto il desiderio, il disvelamento, la sorpresa. In paesi in cui si ha tutto, manca proprio questo: il desiderio. Quale modo migliore per far nascere il desiderio se non con l’aspettativa che potresti non ricevere quello che vuoi?
Il principio di scarsità e la Fomo
A questa leva si aggiunge il principio di scarsità. Questo lo conosciamo tutti molto bene quando ci decidiamo all’acquisto dopo che la commessa sottolinea che “è l’ultimo disponibile” o che “ne sono rimasti pochi”. La sensazione che potremmo rimanere “senza” determina una sorta di Fomo che spinge all’acquisto per non rimanere esclusi. È un meccanismo profondamente radicato: siamo biologicamente portati ad accumulare ciò che temiamo di perdere.
Oggi il boom dei Labubu è passato. Le code non ci sono più, le aste non fanno più notizia. Ma la loro parabola resta un esempio perfetto di come il marketing emozionale possa trasformare un oggetto in un’esperienza, un gioco in un investimento, un pupazzo in un simbolo sociale.
Il caso Labubu dimostra che ciò che compriamo non ha a che fare con l’oggetto in sé, ma con il desiderio che genera, con la comunità che promette e con le emozioni che ci fa vivere. Ed è esattamente questo il cuore del neuromarketing: non vendere prodotti, ma storie, attese, occazioni potenziali, e soprattutto la sensazione, spesso illusoria, di essere un po’ più unici degli altri.