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Case, soldi e status: cosa fare quando il patrimonio diventa identità

Spesso pensiamo al denaro, alle case o agli oggetti come a semplici strumenti per vivere meglio. Ma cosa succede quando diventano molto più di questo? La storia di Danilo ci mostra come il desiderio di accumulare beni possa nascondere bisogni profondi e antichi, e come liberarsene non significhi rinunciare alla sicurezza, ma riscoprire la propria identità autentica.

Tempo di lettura: 4 minuti

Elena Carbone
Elena Carbone

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Psicologa e psicoterapeuta esperta in traumi. Con l’account Instagram La psicologa volante fa divulgazione sul rapporto tra psiche e soldi.

patrimonio e identità
Foto di Engi Akyurt

«Tutti gli amici mi dicono di separarmi. Per loro è facile: si basano solo sul fatto che non ci amiamo più e che non condividiamo più nulla… ma le cose non sono così semplici. Ho creato una vita attorno alla mia famiglia, ho investimenti, ho fatto sacrifici… non voglio buttare all’aria tutto».

Danilo ha 47 anni, tre figli adolescenti e un lavoro come architetto libero professionista. Da qualche mese è indeciso se separarsi o meno: la relazione con la moglie è ormai logora, ma l’idea di mettere fine al matrimonio lo paralizza. Non tanto per la paura di stare solo, quanto per ciò che la separazione comporterebbe sul piano economico: vendere la casa al mare, trasferirsi in periferia, rinunciare a quel centro cittadino che per lui rappresenta un traguardo. In terapia, dietro la facciata di preoccupazioni finanziarie e logistiche, emerge una ferita molto più antica.

La ferita originaria e l’illusione del controllo

Durante l’anamnesi mi aveva raccontato di non aver mai conosciuto sua mamma poiché morta durante il suo parto e di essere stato cresciuto dal padre, uomo distante emotivamente e che non ha mai elaborato la perdita dell’amata moglie, e dalla nonna paterna, una donna pragmatica e fredda.

A Danilo non piace parlare della madre perché nessuno gli ha mai permesso di farlo, fin da piccolo aveva capito che quello era un argomento off limits e ha fatto suo il fastidio degli adulti nei confronti di questo argomento. D’altronde, era l’unica cosa che potesse fare: provare tristezza, frustrazione o rabbia l’avrebbe condotto a non sapere poi come gestirle, dato che i suoi adulti di riferimento non riuscivano a gestire le loro di emozioni. Quindi, l’unica cosa che ha potuto fare è stata mettere tutte le sue emozioni sotto al tappeto del fastidio. Strategia che sembra stia utilizzando anche oggi quando, invece di dar voce alla sofferenza per il fallimento di un matrimonio in cui aveva creduto, focalizza la sua attenzione sul lato economico.

Dal bisogno di avere al timore di perdere

Quando nella vita ci troviamo davanti a perdite precoci, soprattutto se riguardano figure di attaccamento come i genitori, può svilupparsi uno schema profondo che ci spinge a colmare quella mancanza in altro modo. Non sempre con l’amore o le relazioni, che fanno paura perché riportano all’assenza, ma più spesso con ciò che possiamo “controllare”: beni, conquiste, denaro, status. Accumulare significa illudersi che il vuoto non tornerà. Ma, inevitabilmente, quando la vita ci pone davanti a nuove scelte o rinunce, la vecchia ferita torna a sanguinare.

«È vero: quando sei quello senza madre, senza una vera famiglia, non importa cosa ti danno, dentro ti senti mancante. Io ho sempre dovuto dimostrare di valere. Le case, i lavori, i soldi… sono stati la mia armatura».

Danilo inizia a rendersi conto della dinamica che ha sempre messo in atto. La casa al mare, lo studio in centro, l’appartamento spazioso per la famiglia non erano solo scelte pratiche, ma simboli di riscatto, quindi perdere una casa equivale a perdere dignità, tornare indietro, ritrovarsi esposto a quel senso di mancanza originaria che lo accompagna dall’infanzia.

Dalla prigione degli schemi alla libertà interiore

Il lavoro terapeutico entra nel cuore del problema. Emergono in particolare gli schemi della deprivazione emotiva e della ricerca di approvazione: accumulare beni e successi per sentirsi finalmente “a posto”. Ma questi schemi lo imprigionano: lo rendono incapace di scegliere liberamente la strada della separazione, anche quando sarebbe funzionale al suo benessere. Attraverso il percorso terapeutico, Danilo inizia così a distinguere il valore simbolico da quello reale. A piccoli passi, impara a vedere che la sua sicurezza non dipende dai metri quadri o dalla zona in cui abita, ma dalle relazioni autentiche, dalla presenza con i figli, dalla possibilità di scegliere senza la catena invisibile del “non devo perdere nulla”.

Il punto di svolta non è immediato, ma graduale. Danilo si accorge che la sua dignità non crolla se immagina di vivere con meno. Anzi, scopre che può portare con sé ciò che conta davvero: la sua capacità di esserci come padre, la sua creatività di architetto, la sua identità che non coincide più con il patrimonio. Così, l’attaccamento ai soldi e agli immobili si rivela per ciò che è: un linguaggio simbolico, il modo che il suo bambino interiore ha trovato per sopravvivere a una ferita troppo grande. E quando questo significato viene compreso, non è più necessario restare prigioniero del patrimonio. Danilo può allora iniziare a immaginare un futuro in cui scegliere di separarsi non dipende più dalla paura di perdere le sue conquiste, ma dal desiderio autentico di vivere una vita che senta davvero sua.

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