Sempre più poveri: il declino della classe media
Una volta era il cuore pulsante dell’economia e della società italiana. Oggi, la classe media si sta lentamente sgretolando. Tra salari stagnanti, costo della vita in crescita e servizi pubblici sempre più deboli, milioni di famiglie si ritrovano in una zona grigia: non abbastanza povere per accedere agli aiuti, ma troppo fragili per vivere con serenità.
Tempo di lettura: 6 minuti

di Annie Francisca
Autrice specializzata sui temi di sostenibilità, esteri e diseguaglianze sociali.

Per decenni, la classe media è stata il pilastro economico, culturale e simbolico delle democrazie occidentali. In Italia, ha rappresentato l’aspirazione condivisa a una vita dignitosa, stabile, fatta di lavoro sicuro, casa di proprietà, istruzione per i figli e un po’ di risparmi. Oggi, quel modello è in crisi profonda.
Una terra di mezzo sempre più affollata, fatta di persone che ufficialmente non sono povere, ma che ogni mese fanno fatica a sostenere spese essenziali: affitto, bollette, trasporti, salute. E i numeri confermano questa tendenza: in Italia, il 10% delle famiglie più ricche detiene il 60% della ricchezza, mentre sei milioni di persone vivono in una condizione di povertà assoluta.
Negli ultimi vent’anni, l’ascensore sociale si è inceppato: i salari sono rimasti fermi, il costo della vita è aumentato, la precarietà lavorativa si è normalizzata, e i servizi pubblici — dalla sanità all’istruzione — si sono progressivamente indeboliti. Il risultato è una progressiva erosione della sicurezza economica. Ma l’impoverimento non è solo materiale: è anche psicologico, sociale, esistenziale.
In bilico
«Oggi nella classe media ci sono sempre meno persone», spiega Alice Facchini, giornalista indipendente e autrice del libro Poveri noi. La classe media in bilico. «Stiamo assistendo a uno scivolamento progressivo da quella fascia intermedia verso una condizione di povertà. Nei servizi di welfare si parla infatti di “fascia grigia”: sono quelle persone che non risultano formalmente povere, perché hanno un Isee leggermente superiore alla soglia per accedere ai sussidi, ma che, allo stesso tempo, non dispongono di un reddito sufficiente per condurre una vita dignitosa».
Ma la povertà non ha un’unica forma. Come spiega Facchini, ci sono tanti modi per essere poveri: «C’è la povertà materiale, caratterizzata dalla carenza delle risorse economiche necessarie per il proprio sostentamento; c’è la povertà alimentare, quella abitativa e quella energetica, che consistono nell’assenza, o nella scarsità, di alcuni beni fondamentali per la nostra vita: il cibo, la casa, il riscaldamento. E poi la povertà educativa e sanitaria, che misurano la difficoltà di accedere a qualcosa di fondamentale anche se non tangibile, come l’istruzione e la salute».
Il paradosso del merito
«Entrambi i miei nonni lavoravano alla Fiat e, con stipendi da operai, sono riusciti a fare cose oggi impensabili», racconta Roberta ai microfoni di Rame. «Uno ha cresciuto tre figlie con una moglie che non lavorava, l’altro è andato in pensione prestissimo e si è comprato due case». Quei piccoli miracoli erano possibili grazie a un rapporto tra salario e costo della vita profondamente diverso da quello attuale. Ma non solo.
«Durante il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, l’idea che l’impegno individuale potesse migliorare le condizioni di vita non era solo una promessa: in parte era una realtà. Certo, non tutti partivano dallo stesso punto — le disuguaglianze esistevano anche allora — ma la mobilità sociale era percepibile», spiega l’autrice. «Le cose hanno cominciato a cambiare già alla fine degli anni Ottanta, quando le politiche di disinvestimento nel welfare hanno iniziato a smantellare una parte importante di quel meccanismo di supporto che rendeva possibile la mobilità. Poi sono arrivate le crisi e ogni scossa ha lasciato cicatrici profonde. E tutte, in modi diversi, hanno contribuito ad ampliare le diseguaglianze e a inceppare l’ingranaggio dell’ascensore sociale».
Oggi, nemmeno due stipendi bastano più a garantire una reale sicurezza economica e quello che ci ha raccontato Roberta appartiene ormai al passato, a un’epoca che sembra lontanissima. E così, quello che un tempo rappresentava una garanzia contro la povertà – il lavoro – oggi non lo è più. Al suo posto, secondo diverse analisi sociologiche, emerge un nuovo antidoto: la rendita. «Chi possiede qualcosa — un’auto, una casa ereditata, dei beni in banca — parte avvantaggiato. È questa, sempre più spesso, la vera discriminante. Non quanto si lavora, ma cosa si possiede», conclude Facchini.
La povertà educativa
Questo nuovo paradigma rende la povertà ancora più ingiusta, perché non solo cresce, ma diventa sempre meno legata al merito e sempre più alle condizioni di partenza. «La povertà educativa, infatti, è sicuramente quella che più di tutte le altre fa vedere come ci siano veramente poche responsabilità individuali nella povertà e quante invece siano responsabilità politiche», spiega Facchini. «Chi vive in povertà spesso sperimenta anche una povertà culturale, e non ha gli strumenti per comprendere che la propria condizione non è colpa sua. La società ci spinge dentro una logica della performance, in cui si è portati a credere che basti l’impegno per farcela».
Eppure non è una questione di capacità: la povertà economica e la povertà educativa si alimentano a vicenda. Ci sono ragazzi che non riescono a raggiungere certi traguardi non perché non siano brillanti, ma perché mancano delle basi. Non hanno un computer, una connessione internet, uno spazio tranquillo dove studiare. Non sono mai usciti dal proprio quartiere, non hanno mai visto una mostra, non sono mai stati in piscina. Come si fa, dunque, a orientarsi nel mondo, se il mondo non lo si conosce?
La povertà si eredita
La povertà, in Italia, si eredita. Uno studio recente di tre ricercatori dell’Università di Oxford mostra che la probabilità di restare poveri, se si è cresciuti in una famiglia povera, è tra le più alte in Europa. Più alta che in Francia, Germania e Austria, ma anche rispetto ad alcuni Paesi dell’Est come Polonia e Slovenia. In Italia, chi nasce in povertà ha una probabilità superiore di 15 punti percentuali di essere povero da adulto, rispetto a chi proviene da una famiglia non povera.
«Le ristrettezze economiche limitano l’accesso alle risorse culturali ed educative, costituendo un ostacolo oggettivo per chi proviene da famiglie svantaggiate», spiega l’autrice. I dati Invalsi 2024 lo dimostrano: alla fine delle scuole superiori, il 44% degli studenti non raggiunge un livello sufficiente in italiano, e il 48% non supera la soglia minima in matematica. Chi proviene da contesti svantaggiati ha punteggi sistematicamente più bassi rispetto ai coetanei. E l’università non riesce a invertire la rotta. Se i genitori hanno un basso livello di istruzione, solo il 10% dei figli riesce a laurearsi. Quando invece almeno uno dei due è laureato, la percentuale sale al 70%.
Invertire la rotta
Le diseguaglianze però, non sono qualcosa di ineluttabile. «Quello che davvero manca, oggi, è la capacità di ragionare in un’ottica di bene pubblico e collettività», spiega Facchini. «C’è un crescente disimpegno pubblico nei servizi. Negli ultimi tempi, sono stati tagliati strumenti fondamentali: è stato eliminato il fondo per la morosità incolpevole, pensato per aiutare gli inquilini in difficoltà, così come il contributo affitti, o il reddito di cittadinanza. Misure che, pur con i loro limiti, rappresentavano un sostegno concreto per chi era in difficoltà. Per questo è fondamentale ricostruire politiche pubbliche che puntino davvero a una maggiore equità», conclude l’autrice.