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di Rame

Quanto ci costa davvero il fast fashion?

Prezzi bassi, consegne rapide, acquisti compulsivi. Il fast fashion è ormai parte della nostra quotidianità, ma dietro a ogni capo si nascondono impatti ambientali e sociali enormi. Dalle nuove misure europee contro le spedizioni low cost alle alternative sostenibili, si aprono scenari e possibilità per un consumo più consapevole.

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fast fashion
Foto di Peter Livesey

La borsa della più recente collezione lanciata in commercio. Magari con un paio di scarpe da abbinare. Le t-shirt basic, buone un po’ per tutte le occasioni. E perché no, un abito da cerimonia, ché a pensarci per tempo si indovina sempre. Giusto un paio di clic, il tempo di meravigliarsi per quanto convenienti siano i prezzi, e il gioco è fatto. La consegna? Non è certo un problema. Un paio di giorni a tracciare compulsivamente il tragitto del corriere e il pacco è già nelle nostre mani. E dopo? Dopo si ricomincia. È così che funziona, da un po’ di anni a questa parte, l’acquisto dei capi d’abbigliamento da parte degli utenti che vogliono contenere le loro spese. Si chiama fast fashion e su questo principio marchi come Bershka, Stradivarius, Zara o H&M hanno costruito i loro imperi.

I costi del fast fashion

Cicli di produzione rapidissimi, linee sempre aggiornate con tanto di campagna marketing, costi accessibili e consegne quasi istantanee. Un’opportunità a portata di tutti, sembrerebbe, per coniugare stile e risparmio. Eppure, dietro questo meccanismo di consumo così collaudato, si nascondono diverse crepe. Come hanno dimostrato negli anni i report come quelli della campagna Clean Clothes, che dà voce ai lavoratori del settore e che monitorano con dei report le criticità e i passi in avanti compiuti dalle aziende, dietro i bassi costi dei prodotti finali si nascondono costi ambientali e umani altissimi: condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù, inquinamento selvaggio, over produzione.

Anche i costi ambientali dell’acquisto incontrollato sono altissimi, secondo i dati dell’Agenzia europea dell’Ambiente, nel 2020, per fornire abiti e scarpe a ogni cittadino europeo sono stati necessari in media nove metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime; gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nello stesso anno hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Per non parlare delle montagne di rifiuti, formate dall’accumularsi di abiti di scarsissima qualità, che finiscono in discarica dopo pochi utilizzi: solo in Italia parliamo di qualcosa come 162mila tonnellate nel 2023, pari a circa 500 milioni di capi.

Una tassa contro il fast fashion

Per porre rimedio anche al tema dei rifiuti tessili o comunque di oggetti di basso valore, generati dalle vendite a bassissimo costo, l’Unione Europea sta pensando anche una tassa sui pacchi a basso costo in arrivo da piattaforme online come Temu e Shein. Come spiega in questo articolo EuropaToday, l’idea è quella di imporre una tassa di 2 euro per ogni pacco da meno di 150 euro (cifra al di sotto della quale i pacchi non sono soggetti a dazi doganali). L’obiettivo è finanziare i controlli doganali, ma c’è di più.

Sebbene questa misura sia presentata come un modo per compensare i costi dei controlli, essa affronta indirettamente il fenomeno legato al fast fashion dei volumi elevatissimi di spedizioni individuali, segnalando i rischi legati all’importazione di “prodotti pericolosi” e il significativo impatto ambientale di tali grandi volumi – in termini di rifiuti tessili e di confezioni che non vengono riciclate – elementi cruciali nel dibattito sulla sostenibilità. 

Rinunciare per scegliere meglio: il potere dei consumatori

Trasparenza non sempre ineccepibile, qualità dei prodotti spesso non all’altezza e notevole inquinamento: come comportarsi, da consumatori, dinanzi a tutto questo? Una risposta potrebbe risiedere nella cosiddetta moda sostenibile. Sempre più aziende, sia quelle di grande calibro che le piccole realtà indipendenti, stanno puntando con decisione su un approccio più etico e attento ai bisogni delle persone e del pianeta.

Un approccio che coinvolge la filiera, ma anche le materie prime (i capi vengono realizzati con tessuti riciclati) e la loro trasformazione (impianti a basse emissioni e a bassi consumi energetici). Diventare attori del cambiamento si può. E, non a caso, a proliferare sono anche le iniziative dal basso. Basti pensare alla tendenza del “no buy year”, che suggerisce ai consumatori di astenersi per 12 mesi dagli acquisti non strettamente necessari. Per fare la differenza non serve molto. A volte, è solo questione di rinunciare a qualche clic.

 

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