Perché ci sentiamo più poveri anche se paghiamo meno tasse
Negli ultimi anni gli italiani pagano meno tasse, ma si sentono più poveri. L’inflazione è cresciuta più dei salari: tra il 2019 e il 2025 i prezzi sono saliti di oltre il 20%, mentre le retribuzioni solo del 9-10%. Il risultato è una perdita di potere d’acquisto che i tagli fiscali non compensano. Ritardi nei contratti, bassa produttività e stipendi fermi spiegano perché, nonostante le riforme, meno tasse non significano più soldi in tasca.
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di Valentina Ciannamea
Giornalista esperta di mondi digitali con un background da sociologa
Negli ultimi anni, molti lavoratori italiani hanno avuto la stessa sensazione: guadagnano di più, ma riescono a comprare di meno. Un paradosso solo apparente, che fotografa una realtà economica sempre più evidente: il reddito cresce, ma il potere d’acquisto diminuisce. Le buste paga sono leggermente più alte, le aliquote fiscali si sono ridotte, eppure il bilancio familiare resta in affanno. A incidere è una combinazione di fattori – inflazione, stagnazione salariale e contratti scaduti – che annulla gran parte dei benefici fiscali introdotti dal governo.
Un’analisi puntuale arriva dalla giornalista Milena Gabanelli nella sua rubrica “Dataroom” sul Corriere della Sera, dal titolo “Meno tasse sugli stipendi: perché siamo più poveri?” (27 ottobre 2025). L’indagine, realizzata insieme a Simona Ravizza, mostra con dati concreti che, nonostante i tagli al cuneo fiscale e le riforme degli ultimi anni, il potere d’acquisto dei lavoratori italiani continua a scendere.
Gabanelli prende in esame quattro casi tipo: un collaboratore scolastico, un insegnante di scuola superiore, un commesso e un responsabile vendite. Per ciascuno di loro, la riforma fiscale dal 2019 al 2025 ha portato qualche decina di euro in più in busta paga — ma la perdita di potere d’acquisto, dovuta all’inflazione, va da 900 a oltre 2.300 euro all’anno. In altre parole: meno tasse, sì, ma anche meno soldi reali.
La trappola dei salari nominali
Il problema nasce da una contraddizione strutturale. Negli ultimi cinque anni i salari italiani sono aumentati in media del 10%, ma nello stesso periodo i prezzi sono cresciuti di oltre il 20%. Significa che, pur avendo più euro in tasca, possiamo comprare il 10 % in meno rispetto a prima.
A questo si aggiunge il ritardo dei contratti collettivi: come ricorda la “Dataroom”, il contratto della scuola (2019-2021) è stato rinnovato solo a fine 2022, e i successivi aumenti non hanno tenuto il passo dell’inflazione. E così, mentre i tagli Irpef e gli sconti contributivi promettevano “più soldi netti”, l’aumento dei prezzi dei beni essenziali ha eroso ogni vantaggio.
Chi paga il prezzo maggiore
I dati recenti rivelano una verità difficile da ignorare: in Italia molti lavoratori stanno perdendo terreno, anche se nominalmente guadagnano di più o beneficiano di riduzioni fiscali. Secondo il rapporto International Labour Organization (ILO) per il 2024-25, l’Italia figura tra i Paesi del G20 con una perdita stimata di -8,7% nei salari reali, ossia dopo aver considerato il costo della vita. Un’ulteriore conferma arriva dall’Organisation for Economic Co‑operation and Development (OECD): i salari orari reali italiani nel primo trimestre del 2025 risultano inferiori del 7,5% rispetto al primo trimestre del 2021.
In sintesi: meno tasse non significa automaticamente più potere d’acquisto. Il guadagno nominale aumenta, ma i prezzi dei beni e dei servizi salgono più rapidamente. Questa dinamica penalizza in modo particolare chi ha redditi medio-bassi o vincolati da contratti con pochi spazi di crescita: pur beneficiando delle misure fiscali, la “testa del reddito” (la retribuzione lorda) e la “coda del reddito” (ciò che resta dopo costi vivi e inflazione) non riescono a compensare l’erosione del potere d’acquisto.
Un Paese che lavora tanto, ma resta indietro
Il nodo è strutturale: da oltre vent’anni l’Italia è il Paese europeo dove i salari crescono meno. Secondo i dati di Eurostat e OECD, tra il 1995 e il 2022 la produttività italiana è aumentata solo dello 0,4 % l’anno, contro una media UE dell’1,6 %. La conseguenza è che il mercato del lavoro non genera margini per aumenti retributivi stabili, e i salari reali restano fermi ai livelli di vent’anni fa.
Secondo il Total Remuneration Survey 2024 di Mercer, l’Italia è terzultima in Europa per retribuzioni medie dei neolaureati, con 30.500 euro lordi l’anno. Peggio fanno solo la Spagna (28.500 euro) e la Polonia (16.675 euro). In testa alla classifica ci sono Svizzera (86.722 euro), Germania (53.300 euro) e Austria (51.100 euro).
Il divario si amplia con l’esperienza: dopo 4-5 anni dalla laurea, un lavoratore italiano guadagna in media 77.647 euro, contro una media europea di 101.860 euro, cioè il 24% in meno. Solo la Polonia resta indietro, con 65.408 euro. Anche nei ruoli di leadership, l’Italia si colloca sotto la media europea: 285.156 euro contro 317.826 euro. Dietro restano solo Polonia (279.120 euro) e Spagna (277.333 euro), mentre Francia (261.511 euro) e Germania superano ampiamente il livello italiano.
Questi dati fotografano un Paese in cui le opportunità di crescita salariale restano limitate, e dove il potere d’acquisto è penalizzato non solo dai prezzi, ma anche da una base retributiva più bassa della media europea. A peggiorare la situazione c’è la composizione dei redditi: contratti part-time, precarietà, e stipendi legati a settori a bassa produttività (come commercio e servizi) che amplificano la sensazione di povertà.
Perché questo tema riguarda davvero il benessere finanziario
Pagare meno tasse non significa necessariamente vivere meglio. Se il costo della vita cresce più in fretta del reddito, il bilancio familiare si deteriora anche con una busta paga leggermente più alta. È qui che entra in gioco la differenza fra reddito nominale e potere d’acquisto reale: non conta solo quanto si guadagna, ma quanto quel reddito permette concretamente di vivere, risparmiare e progettare il futuro.
Capire questa dinamica è fondamentale per costruire una stabilità economica personale e familiare. Significa:
- tenere d’occhio l’andamento dei prezzi e confrontarlo con la propria retribuzione;
- valutare se il proprio salario reale sta crescendo o diminuendo nel tempo;
- diversificare le fonti di reddito, per ridurre la dipendenza esclusiva dal lavoro dipendente;
- rafforzare la propria resilienza finanziaria, fatta di risparmio, previdenza e competenze economiche che permettano di affrontare l’imprevisto.
In altre parole, meno tasse non bastano: serve un sistema in cui il lavoro sia davvero in grado di sostenere il costo della vita e di garantire sicurezza economica a lungo termine.