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Chi sono i Neet e cosa si nasconde dietro questo fenomeno

Negli ultimi anni, il termine Neet – che indica i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono alcun percorso formativo – è diventato sempre più familiare nel dibattito pubblico italiano, spesso evocato come simbolo di una generazione sospesa tra incertezza e disillusione. Ma cosa si cela davvero dietro questo fenomeno? E quali potrebbero essere le possibili vie d’uscita da quella che, sempre più chiaramente, si configura come una delle più gravi criticità sociali del nostro Paese?

Tempo di lettura: 5 minuti

chi sono i neet
Foto di Thai An

Nell’ultimo decennio, specie in concomitanza di eventi come la Grande Recessione tra il 2007 e il 2013 e la pandemia del 2020-2021 che ne hanno fatto crescere l’incidenza, gli italiani hanno imparato a familiarizzare con un acronimo di segno non esattamente positivo. Parliamo della sigla NEET – Not in Employment, Education, or Training – che indica i giovani nella fascia tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono alcun percorso formativo. Una realtà piuttosto consolidata nel nostro Paese, se si guarda alle classifiche europee che, anno dopo anno, gli hanno conferito un poco lusinghiero primato.

Nemmeno lo scorso anno, secondo Eurostat, ha fatto eccezione: nonostante un progressivo calo dal 19% del 2022 al 15,2% del 2024, l’Italia rimane tra i peggiori stati in Europa, dietro soltanto alla Romania e ben al di sopra della media continentale (11%). Il dato di certo sconforta e sottolinea la necessità di un approccio politico ed economico diverso. Ma, al tempo stesso, non restituisce appieno la complessità di un fenomeno tra le cui pieghe si nascondono diverse sfumature. Che partono, in fondo, dalle seguenti domande: qual è, in genere, il profilo di un Neet? Bastano le difficoltà ad accedere al mondo del lavoro a spiegarne una percentuale così alta?

Chi sono i Neet

Uno dei fattori chiave per individuare l’origine del fenomeno risiede nella mancata comunicazione tra il mondo dell’istruzione e quello delle professioni. Rientrano tra i Neet, infatti, molti giovani che non riescono a spendere adeguatamente le competenze acquisite. Secondo le elaborazioni di Openpolis, il 17,8% di loro è in possesso del diploma, una percentuale addirittura più alta rispetto a chi ha solo la licenza media (13,3%). Ma anche i laureati non sono immuni: l’11,8% risulta escluso al termine degli studi. Un dato, anche questo, al di sopra della media europea.

Ad incidere sulle loro difficoltà di collocazione è anche la scarsa efficacia dell’orientamento che li porta a scegliere i percorsi formativi. Prima ancora di completare un ciclo di studi, molti finiscono per abbandonare e per rimpolpare i numeri della dispersione scolastica. Non stupisce, infatti, che i capoluoghi con le punte percentuali più alte di Neet siano Catania (42,0%), Palermo (39,8%) e Napoli (37,3%), ovvero città che detengono anche il primato della povertà educativa.

Quanto incide la povertà educativa

Questa dinamica, secondo Luca Bianchi direttore di Svimez, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, contribuisce ad alimentare fenomeni collaterali, come quello del lavoro nero, e che impone riflessioni sulla necessità di adottare provvedimenti strutturali: «Ciò che il nostro Paese sconta, e i giovani in particolar modo, è la drammatica stagnazione dei salari: la maggior parte è ancora ferma al pre-Covid e questo determina un’offerta di occupazione inedaguata, troppo povera, che non consente a questi ragazzi di entrare nel mondo del lavoro. O, se glielo consente, solo attraverso impieghi precari o, peggio, sommersi. È un problema di disuguaglianze territoriali, ma anche di ciò che scuola e imprese possono offrire in questo momento. Il fenomeno dei Neet non è soltanto un’emergenza sociale ed educativa: è il più grande spreco di capitale umano del nostro Paese».

Ma il quadro, si diceva, è complesso. E un’analisi dei dati non può prescindere da un altro ordine di considerazioni: quello che riguarda gli aspetti culturali entro i cui confini il tema dei Neet si sviluppa. Una recente indagine condotta da IlSole24Ore su dati Istat ha rivelato, per esempio, che la fetta maggiore di giovani non impegnati attivamente è composta da ragazze: pesano, sulle loro scelte e sulle loro opportunità, pregiudizi legati alle questioni di genere, salari non equiparati a quelli delle loro controparti maschili, la difficoltà oggettiva di conciliare carriera e cura familiare.

Si aggiunge, poi, il tema delle famiglie: che, specie per quanto riguarda quelle a reddito medio-alto, possono inconsciamente rivelarsi delle reti di supporto che scoraggiano i figli a modificare la propria condizione. 

L’aspetto psicologico del fenomeno

A questa equazione, tuttavia, va aggiunto un ultimo elemento: l’aspetto psicologico. Da questo punto di vista, Bianchi è categorico: «I Neet non vanno demonizzati. Non è una questione di bamboccioni o appassionati del divano: sono semplicemente il risultato da un lato di una debolezza e di un’insufficienza del capitale produttivo, ma dall’altro anche di un orientamento delle politiche che non ha mai avuto le nuove generazioni come target principale degli investimenti pubblici». Ansia verso il futuro, sfiducia verso sé stessi e le proprie capacità, perdita di frequenza relazionale a causa di percorsi scolastici non adeguati – o dopo il loro abbandono – sono tutti degli amplificatori di insicurezza per tanti giovani che finiscono così per rifuggire la socialità.

Come spiega questo articolo di ELLE, esiste un legame tra l’incremento dei Neet e quello dei cosiddetti hikikomori, ovvero coloro che conducono una vita ritirata, senza alcun contatto con il mondo esterno, se non attraverso il virtuale. Un parallelismo confermato dalle considerazioni di Hikikomori Italia, citato da La Nazione: «Sebbene tale condizione tenda a svilupparsi nell’adolescenza, riguarda i giovani fino a 30 anni. Il desiderio di ritiro sociale tende a cronicizzarsi con facilità e può potenzialmente durare tutta la vita».

La soluzione? Investire sulla formazione

Per tale motivo, secondo Bianchi, è necessario un cambio di passo. Istituzionale, ma anche culturale: «Bisogna innanzitutto investire maggiormente sulla formazione. Poi favorire la partecipazione al sistema universitario e scolastico e riorientare le politiche verso la formazione. Sempre tenendo a mente una domanda fondamentale: quale modello di sviluppo vogliamo portare avanti? Noi di Svimez crediamo che la risposta risieda in un modello che abbia il coraggio di innovare. E di permettere alle imprese di offrire occupazione di maggiore qualità».

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