Le misure per la famiglia del governo aiuteranno davvero le mamme?
Nella bozza della legge di Bilancio 2026 licenziata dal governo, tra le misure a favore della famiglia e della natalità ce n’è una che incentiva il part-time per chi ha almeno tre figli, è rivolta a entrambi i genitori, ma chi la utilizzerà in un Paese in cui, in due casi su tre, a lavorare part-time sono le donne? E con quali conseguenze?
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di Giorgia Nardelli
Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

Il 21 ottobre l’Istat ha diffuso gli ultimi dati sulla maternità in Italia. Le nascite precipitano: tra gennaio e luglio 2025 sono nati circa 13mila bambini in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, il 6,3%, il numero medio di figli per donna ha toccato il record negativo di 1,13, era 1,18 nel 2024, 1,20 nel 2023, e possiamo fermarci qui. Curiosamente, proprio nei giorni scorsi ha iniziato a circolare la bozza della legge di Bilancio licenziata dal governo, che contiene misure a favore della famiglia e della natalità.
Nulla di rivoluzionario, nemmeno questa volta. Il pacchetto contempla un aumento del bonus per le mamme lavoratrici con almeno due figli di 20 euro al mese, la decontribuzione per datori di lavoro che assumono madri di almeno tre figli senza lavoro (e le altre?), l’allungamento a dieci giorni dei congedi per malattia dei minori, il prolungamento dei contratti a termine per le lavoratrici che hanno un figlio.
Più part time per tutti?
Tra le altre, però, è spuntata una misura che riguarda entrambi i genitori, e che incentiva i contratti part time. Detta in parole semplici, i datori di lavoro che danno priorità alle madri e padri di almeno tre figli conviventi nel passaggio da full time a tempo parziale, godranno di un esonero dei contributi previdenziali per 24 mesi. Lo scopo è chiaro, favorire i genitori che chiedono di trascorrere più tempo con la prole, anche rinunciando a parte della retribuzione, dei contributi e ad eventuali avanzamenti di carriera.
Una scelta personale, si dirà, una possibilità in più che tutti possono sfruttare. Vero. Ma se andiamo a mettere in fila i dati di chi per scelta o per forza ha oggi in Italia un contratto a tempo parziale, viene il sospetto che la misura sarà utilizzata soprattutto da una metà del cielo.
Il lavoro di cura è ancora donna
In un Paese dove il tasso di occupazione femminile è al 52,5%, contro il 70,4% degli uomini, dove solo il 18% delle assunzioni di donne sono a tempo indeterminato, il tempo parziale riguarda in quasi due casi su tre il 64,4%, lavoratrici donne. Anche il part-time involontario – scrive l’Inps nel suo Rendiconto di genere 2024 – è «prevalentemente femminile, rappresentando il 15,6% degli occupati, rispetto al 5,1% dei maschi».
Nel 2023, se servisse, l’Eurostat ha certificato che il 31,3% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli ha lavorato con un contratto part-time, contro il 4,8% degli uomini con figli. Il rapporto in questo caso è di 6 a 1. «Le donne continuano a farsi carico della maggior parte del lavoro di cura. Nel 2023, le giornate di congedo parentale utilizzate dalle donne sono state 14,4 milioni, contro appena 2,1 milioni degli uomini. L’offerta di asili nido rimane insufficiente, con solo l’Umbria, l’Emilia-Romagna e la Valle d’Aosta che raggiungono o si avvicinano all’obiettivo dei 45 posti nido per 100 bambini 0-2 anni», continua il report Inps.
Le conseguenze su pensioni e salari
Numeri alla mano, la domanda che tutti ci facciamo, è: chi chiederà il part time, i padri, che già fanno scarso ricorso a congedi parentali e in quanto uomini guadagnano in media il 28,34% in più, o le mamme, a cui è affidato ancora in modo quasi totale il lavoro di cura? Sui social, il carosello di Rame dedicato a questa misura ha provocato molte reazioni, e molte donne si sono dette felici di rinunciare a un lavoro a tempo pieno per stare vicino ai figli. Non vorrebbero più asili nido, ma meno ore al lavoro, ed è comprensibile. Resta però il tema economico.
A Rame, qualche tempo fa, l’economista femminista Azzurra Rinaldi diceva: «Se resto in congedo parentale per mesi, oppure passo al part time – altra opzione spesso valutata – devo sapere per esempio che le occasioni lavorative che perdo a 35 anni non le ritrovo a 40, o che rinunciare al tempo pieno significa perdere la metà dei contributi. Tutto questo si tradurrà in minori guadagni nel corso della carriera, e a una pensione più povera dopo. In Italia le pensioni delle donne sono il 36% più basse di quelle degli uomini, perché il modello che abbiamo costruito affida a lei la gestione della famiglia». Non è forse il part-time il punto, ma la scarsità di luoghi di lavoro più accoglienti e ritmi lavorativi più umani, a misura di famiglia.
Chi ci perde
Quanto alla misura contenuta nella legge di Bilancio, il nodo della questione, o comunque ciò che lascia l’amaro in bocca, è l’impressione che in un modo o nell’altro, nel nostro Paese, si offra sempre la possibilità di scegliere alle donne che vogliono rinunciare all’indipendenza, e mai a chi preferirebbe non mollare.
Intanto, la Cgil denuncia che a pochi mesi della scadenza del Pnrr è stato speso solo il 34% dei 3,6 miliardi di euro di finanziamenti per asili nido e scuole dell’infanzia: «solo il 7% delle opere risulta completato e collaudato, mentre un quinto dei progetti presenta ritardi nella fase di esecuzione delle opere e 147 progetti fermi alla fase della progettazione esecutiva». Restano i 60 milioni annuali permanenti inseriti nella legge di Bilancio per sostenere i centri estivi e le attività extrascolastiche.