Il potere invisibile del dollaro: come le sanzioni USA condizionano l’Europa
La centralità del dollaro nei pagamenti globali consente agli Stati Uniti di proiettare sanzioni oltre i propri confini, colpendo aziende e banche europee anche quando operano fuori dal territorio americano. Il dominio del dollaro non è solo finanza: è potere giuridico ed economico che gli Stati Uniti proiettano oltre confine. Il caso Francesca Albanese lo ha mostrato in modo lampante: la relatrice ONU, sanzionata da Washington a luglio 2025, si è vista di fatto tagliata fuori dall’operatività bancaria anche nell’UE (conti bloccati, rifiuto di apertura, carte e bonifici impediti) per il timore degli intermediari di violare le misure americane. Abbiamo indagato come funziona questa extraterritorialità, i costi indiretti per l’economia europea e quali contromisure sono allo studio.
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di La redazione

Quando Banca Etica ha comunicato a Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori palestinesi, di non poterle aprire un conto corrente, non si trattava di una scelta politica. La banca ha spiegato che la relatrice è inserita nella lista delle persone soggette a sanzioni economiche gestita dall’Office of Foreign Assets Control (Ofac), l’agenzia del Tesoro statunitense responsabile dell’applicazione dei regimi sanzionatori. Accettarla come cliente avrebbe potuto esporre l’istituto a sanzioni secondarie e, nel peggiore dei casi, al blocco delle operazioni in dollari.
L’episodio, riportato da testate come Avvenire e ripreso da diversi media internazionali, non è un’anomalia. È la manifestazione concreta di un sistema nel quale le norme statunitensi, nate per tutelare la sicurezza nazionale, si estendono di fatto a chiunque utilizzi il dollaro come moneta di scambio. Un potere che non ha bisogno di decreti formali per agire: basta la minaccia di essere esclusi dal circuito finanziario americano perché una banca europea scelga di “non rischiare”.
Le sanzioni americane e la loro portata extraterritoriale
Per comprendere la vicenda occorre guardare al funzionamento dell’Ofac. L’agenzia redige e aggiorna la Specially Designated Nationals List, che comprende individui, aziende e organizzazioni accusate di sostenere attività terroristiche o di minacciare la sicurezza degli Stati Uniti. Chi vi compare vede congelati i propri beni e viene escluso da ogni transazione che coinvolga, anche solo indirettamente, il sistema finanziario americano.
Formalmente, queste misure riguardano solo soggetti statunitensi. Ma nella pratica, attraverso le sanzioni secondarie, Washington estende la sua influenza su chiunque mantenga rapporti economici con persone o entità incluse nella lista. Una banca italiana che decidesse di accogliere un cliente sanzionato potrebbe essere accusata di “facilitare” un’operazione vietata. Il risultato è una forma di deterrenza preventiva: non serve colpire, basta che il rischio esista.
È ciò che spiega, ad esempio, la condanna da 8,9 miliardi di dollari inflitta nel 2014 alla francese BNP Paribas per aver gestito transazioni con Paesi sotto embargo. Da allora, ogni istituto europeo ha imparato che una violazione, anche involontaria, può costare la sopravvivenza stessa della banca.
Il tentativo europeo di resistere: un contrappeso fragile
L’Unione Europea ha cercato di reagire già negli anni Novanta con il Regolamento 2271/96, noto come Blocking Statute, aggiornato nel 2018. L’obiettivo era vietare agli operatori europei di conformarsi automaticamente alle sanzioni extraterritoriali americane e consentire loro di chiedere risarcimento per eventuali danni. Come ricorda la Commissione Europea, questa norma “protegge gli operatori dell’UE dagli effetti extraterritoriali della legislazione di Paesi terzi e dalle azioni basate su di essa, salvaguardando gli interessi economici dell’Unione”.
Nella realtà, però, la sua efficacia è limitata. Le imprese europee sanno che le contromisure previste da Bruxelles non hanno la forza di contrastare la potenza coercitiva degli Stati Uniti. Rifiutarsi di rispettare le sanzioni americane può significare la perdita immediata dell’accesso ai mercati in dollari e l’interruzione delle relazioni con banche corrispondenti. Come spiegano analisi di studi legali internazionali come Norton Rose Fulbright, le cause previste dall’articolo 6 del regolamento restano “pressoché impraticabili” per complessità e incertezza giuridica.
Un caso emblematico è la sentenza Bank Melli vs. Telekom Deutschland, in cui la Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che un’impresa europea può chiudere un contratto con un soggetto sanzionato solo se dimostra che la decisione non è stata dettata dal desiderio di conformarsi alle sanzioni USA. Un paradosso che, di fatto, scarica la responsabilità sulle aziende e non risolve l’asimmetria di potere.
Il dominio del dollaro come architettura di controllo
Il punto di forza americano risiede nel ruolo del dollaro come valuta globale. Secondo l’ultima Triennial Central Bank Survey della Banca dei Regolamenti Internazionali, pubblicata nel 2022, il dollaro è presente in circa l’88% delle transazioni sui mercati dei cambi a livello mondiale. Quasi tutte le grandi operazioni internazionali passano da banche corrispondenti con sede negli Stati Uniti o da infrastrutture di compensazione controllate da istituti americani.
Questo significa che un’istituzione europea che volesse operare “indipendentemente” dal dollaro dovrebbe rinunciare a una fetta cruciale del commercio mondiale. È questa asimmetria strutturale a trasformare la politica delle sanzioni in uno strumento geopolitico potente quanto invisibile: basta il timore di un blocco dei flussi in dollari per indurre gli operatori stranieri ad adeguarsi.
Non sorprende quindi che, come accadde nel 2018 dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, molte aziende europee abbiano sospeso le proprie attività in Iran nonostante il sostegno dell’UE all’intesa. L’esperimento di un circuito alternativo in euro, Instex, naufragò in pochi mesi, travolto dal timore di ritorsioni americane.
Sovranità europea e libertà individuale
Il caso Albanese mette in luce anche l’effetto diretto di queste dinamiche sui diritti individuali. Una cittadina italiana, che agisce in qualità di funzionario ONU, non può accedere a un conto o a una carta di credito non per decisione del suo Paese, ma per un provvedimento amministrativo emesso da un governo straniero. Nessun tribunale italiano le impedisce di operare; eppure, di fatto, nessuna banca può accettarla.
Per Banca Etica la questione è divenuta emblematica. Nella sua nota ufficiale, l’istituto parla di “un’inaccettabile limitazione della libertà economica imposta da un soggetto esterno all’ordinamento europeo”. Dietro quella frase si cela la consapevolezza che la sovranità normativa europea resta vulnerabile: finché l’accesso al sistema dei pagamenti dipenderà dal dollaro, la libertà di scelta di una banca italiana sarà condizionata da leggi non sue.
Un nodo politico prima ancora che economico
Il rifiuto a Francesca Albanese non è quindi soltanto un incidente amministrativo, ma il sintomo di una dipendenza sistemica. L’Europa dispone di strumenti giuridici, ma non di un’infrastruttura autonoma capace di reggere l’urto della potenza finanziaria americana.
La risposta possibile non è solo normativa ma strategica: costruire canali di pagamento in euro realmente indipendenti, rafforzare i sistemi di compensazione europei e difendere il principio che nessun cittadino del continente possa essere escluso dalla vita economica per decisioni prese altrove.
Finché ciò non accadrà, il caso Albanese continuerà a ricordarci che anche nel mondo iperconnesso dell’economia digitale, il potere resta legato a chi controlla la moneta. E che, talvolta, un semplice conto negato può svelare la forma più sottile di egemonia.