Ogni volta che “accettiamo i Cookie”, i nostri dati diventano capitale digitale
Ogni volta che clicchiamo su “Accetta tutti i cookie” pensiamo di fare un gesto banale. In realtà cediamo informazioni preziose sulle nostre abitudini e interessi, dati che alimentano l’economia pubblicitaria e l’intelligenza artificiale. La nostra navigazione quotidiana diventa così un terreno dove chi controlla i dati accumula potere e ricchezza digitale. Ecco alcune strategie concrete per proteggersi.
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di La redazione

Ogni volta che clicchiamo “Accetta tutti i cookie”, pensiamo di compiere un gesto banale. In realtà stiamo firmando — senza leggerlo — un accordo economico. Non scambiamo denaro, ma informazioni: sulle nostre abitudini, i nostri interessi, i nostri tempi di navigazione. E quelle informazioni valgono molto più di quanto immaginiamo. Per anni, i cookie sono stati la base dell’economia pubblicitaria online. Oggi, però, hanno assunto un ruolo più strategico: sono la materia prima che alimenta l’intelligenza artificiale predittiva, quella che prova ad anticipare ciò che faremo, compreremo o penseremo. La cosiddetta “guerra dei cookie” non è più solo una disputa tecnica tra browser e piattaforme. È una battaglia economica globale sul possesso e il controllo dei dati, divenuti il nuovo capitale del XXI secolo.
Il valore economico dei dati
Attribuire un prezzo ai dati personali è difficile, ma non impossibile. Uno studio pubblicato su arXiv dai ricercatori Jan Krämer, Heiko Karle e Daniel Schnurr, che ha analizzato oltre 50.000 utenti europei, stima che un singolo cookie valga in media circa 2,5 euro nel contesto pubblicitario. Un importo modesto, che tuttavia cresce quando viene incrociato con altri dati — localizzazione, acquisti, tempo di permanenza, preferenze — fino a generare un profilo altamente remunerativo. Il rapporto “Consumer Data Privacy and Personalization at Scale” di McKinsey & Company mostra come il vero vantaggio competitivo delle aziende digitali non sia solo tecnologico, ma informativo: la capacità di raccogliere, interpretare e monetizzare i dati dei consumatori. In altre parole, chi possiede i dati possiede il mercato. Il problema è che quel valore non torna ai cittadini. Gli utenti restano la fonte di una ricchezza che alimenta modelli di business miliardari, senza che ne ricevano alcun beneficio economico o potere decisionale.
Dal tracciamento alla predizione
I cookie sono solo l’inizio. L’intelligenza artificiale ha reso possibile una estrazione comportamentale su scala inedita. Ogni ricerca, pausa su un video o acquisto online diventa un dato che alimenta modelli predittivi capaci non solo di comprendere, ma di anticipare e indirizzare le nostre decisioni. È il principio su cui si fonda ciò che la studiosa statunitense Shoshana Zuboff definisce “capitalismo della sorveglianza”. Nel suo libro “The Age of Surveillance Capitalism”, scrive: «Il capitalismo della sorveglianza rivendica unilateralmente l’esperienza umana come materia prima gratuita da trasformare in dati comportamentali». Zuboff ha mostrato come le grandi piattaforme — Google, Meta, Amazon, TikTok — abbiano trasformato i nostri gesti quotidiani in prodotti predittivi, venduti a chi vuole influenzare comportamenti di consumo o di voto. Il loro vantaggio competitivo non è tanto l’algoritmo, ma la quantità di informazioni da cui l’algoritmo impara: più dati, migliori previsioni, più profitti.
Una ricchezza che si concentra
In questa economia, la conoscenza si traduce in potere economico. Ogni informazione personale è un tassello di un mosaico che, aggregato, produce valore per pochi e marginalità per tutti gli altri. Le imprese prive di grandi basi dati sono costrette a comprare visibilità dalle piattaforme, pagando per raggiungere utenti che spesso sono già i loro clienti. È un circolo vizioso: chi possiede i dati controlla il mercato; chi non li possiede, deve affittarli. L’utente medio resta un fornitore inconsapevole di valore, mentre le grandi piattaforme monetizzano la sua attenzione e le sue preferenze.
Dalla privacy all’equità
La questione non è più solo chi ci spia, ma chi guadagna da ciò che sa di noi. La privacy diventa così una componente dell’equità economica: un diritto che tutela non solo la riservatezza, ma una partecipazione più giusta alla ricchezza generata dai dati personali. Nel suo intervento alla Camera dei Deputati per la presentazione del libro “Smetti di farti spiare, difendi la tua privacy”, il presidente di Federprivacy Nicola Bernardi ha ricordato che «le sanzioni hanno sicuramente la loro funzione, ma per creare una società digitale sostenibile serve un vero ripensamento da parte delle istituzioni. Altrimenti, con l’intelligenza artificiale, la situazione peggiorerà e la difesa della privacy diventerà sempre più una battaglia personale». Senza nuove regole, infatti, l’intelligenza artificiale rischia di accentuare le disuguaglianze tra chi raccoglie dati e chi li genera, concentrando potere e profitti in poche mani.
Verso un nuovo patto dei dati
Da tempo, economisti e policymaker discutono di come costruire un patto dei dati: un equilibrio tra innovazione, trasparenza e redistribuzione. Alcuni propongono mercati regolamentati in cui i cittadini possano decidere se e come condividere le proprie informazioni, ricevendo benefici economici diretti o collettivi. Altri temono che monetizzare la privacy significhi snaturarla, trasformandola in un privilegio accessibile solo a chi può permetterselo. L’obiettivo, dunque, non è bloccare il flusso delle informazioni, ma renderlo più trasparente e più giusto.
Cosa possiamo fare (davvero)
Anche se il sistema appare opaco, non siamo del tutto disarmati. Ci sono azioni semplici e concrete che ognuno di noi può mettere in pratica per proteggere i propri dati — e, di riflesso, la propria libertà digitale. Il primo passo è gestire consapevolmente i cookie. Evitare di cliccare automaticamente su “Accetta tutto” è già un gesto di autonomia. Quasi tutti i siti permettono di selezionare “Solo necessari” o “Personalizza”, limitando così la raccolta di informazioni superflue. Il Garante per la protezione dei dati personali spiega in modo chiaro come distinguere i cookie tecnici, indispensabili al funzionamento dei siti, da quelli di profilazione usati per fini commerciali.
Un altro strumento potente è la scelta del browser. Alcuni, come Firefox, Brave o Safari, bloccano di default molti tracciatori di terze parti, riducendo l’impronta digitale che lasciamo sul web. La Mozilla Foundation pubblica una guida costantemente aggiornata, Privacy Not Included, che valuta il livello di tutela dei principali servizi e applicazioni: un buon punto di partenza per capire quanto un software rispetta davvero la privacy degli utenti.
È utile anche limitare la profilazione pubblicitaria. Su Android e iOS è possibile disattivare la pubblicità personalizzata direttamente dalle impostazioni del telefono. Sia Google che Meta offrono centri di controllo dedicati, dove rivedere e modificare le preferenze sugli annunci. Bastano pochi minuti per ridurre in modo significativo la quantità di dati utilizzati per la pubblicità comportamentale.
Le buone abitudini
Un’abitudine spesso trascurata è controllare periodicamente i consensi dati. Rimuovere le autorizzazioni non più necessarie o concesse troppo tempo fa è un modo semplice per limitare l’accumulo di informazioni inutili. Il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) pubblica linee guida e raccomandazioni che spiegano come utenti e imprese possono applicare concretamente i principi del GDPR nella vita quotidiana.Infine, la difesa più solida resta l’informazione. Il sito del Garante Privacy italiano offre strumenti pratici per conoscere i propri diritti e farli valere. Organizzazioni come Federprivacy e Privacy International diffondono analisi aggiornate sull’uso dei dati e sulle nuove sfide poste dall’intelligenza artificiale. In un’epoca in cui la tecnologia tende a sapere sempre più di noi, imparare a conoscere come funziona è il primo passo per restare liberi davvero.