“Mia Moglie” non è un caso: l’economia del revenge porn
Il caso “Mia Moglie” non è (solo) cronaca nera: è la punta di un’economia che lucra sulla violazione dell’intimità. Gruppi e siti di revenge porn crescono come qualsiasi business online: attirano traffico con contenuti illegali, poi monetizzano con pubblicità, affiliati, abbonamenti “VIP”. Comprendere il meccanismo economico alla base della diffusione di immagini non consensuali è essenziale per capire perché, nonostante indignazione e interventi, il mercato dell’abuso fatica a fermarsi. La risposta efficace deve colpire gli incentivi (bloccare pagamenti e circuiti adv), imporre regole e moderazione reali alle piattaforme e finanziare supporto alle vittime. E serve un cambio culturale: nessuno spettatore è innocente—ogni click alimenta la filiera dell’abuso.
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di La redazione

«Alla fine ci guadagnano in tre: il gestore del gruppo; chi compra pubblicità in quei gruppi, per esempio i creator; e anche le grandi aziende che indirettamente e senza saperlo trovano nuovi clienti lì dentro». Con queste parole, in una recente puntata della sua newsletter, il giornalista Gabriele Cruciata ha riassunto il cuore del problema: dietro al revenge porn non ci sono solo individui senza scrupoli, ma una vera economia. Negli ultimi mesi il tema è tornato al centro del dibattito pubblico in Italia: dal gruppo “Mia Moglie” su Facebook e Telegram al sito oscurato con migliaia di foto di donne comuni, celebrità e figure politiche. Ogni volta lo schema si ripete: indignazione, chiusura, e subito dopo la nascita di cloni e nuovi canali. La domanda da farsi è inevitabile: perché questo mercato non si riesce a fermare?
Non è solo crudeltà: è un business
Parlare di revenge porn come di un ricatto o di una devianza individuale è riduttivo. Quello che si è consolidato è un vero sistema di monetizzazione. I gruppi che diffondono immagini non consensuali funzionano come macchine economiche: più iscritti arrivano, più cresce il potenziale guadagno. Il meccanismo è semplice e perverso. Si apre uno spazio online – un gruppo su Telegram, una pagina Facebook, un forum – e si cominciano a caricare immagini e video rubati. Il pubblico cresce in fretta, perché l’attrattiva del contenuto illegale è forte. Con un’audience consolidata, si monetizza. I gestori piazzano pubblicità legate a scommesse e criptovalute, diffondono link affiliati, promuovono creator a pagamento e offrono abbonamenti VIP o pacchetti riservati. È lo stesso schema che troviamo in molti settori del web lecito: l’attenzione si trasforma in denaro. Con una differenza radicale: qui la materia prima è la violazione dell’intimità.
Perché è così difficile fermarlo
Ogni chiusura è un palliativo. Un sito oscurato rinasce altrove, con un dominio nuovo e un altro nome. I gestori si spostano su server esteri, replicano i contenuti, aggirano ogni tentativo di controllo. Il nodo è negli incentivi economici: finché il traffico genera profitti, le piattaforme hanno pochi motivi per investire seriamente nella moderazione. Lo ha mostrato bene un’inchiesta di Le Monde, che descrive Telegram come l’hub dei “crimini quotidiani”, dove comunità illegali resistono a ogni intervento.
Intanto, i governi arrancano. Nel Regno Unito il Parlamento ha denunciato un aumento del 20% dei casi di NCII e chiede più fondi per i servizi di supporto. Negli Stati Uniti è stato approvato il “Take It Down Act” contro i deepfake non consensuali, mentre la Casa Bianca ha promosso impegni volontari dell’industria tech. Ma la natura globale di questi network rende ogni risposta parziale.
Le responsabilità (anche degli utenti)
Non sono solo i gestori a essere colpevoli. Chi entra in questi spazi, guarda, commenta o paga per accedere, contribuisce a mantenerli in vita. Non ci sono spettatori innocenti. Ogni click, ogni iscrizione VIP, ogni condivisione è un incentivo a proseguire. Il revenge porn non è un insieme di episodi isolati. È una filiera economica che parte dal furto di immagini, passa per la loro circolazione in gruppi e siti mirror, e si conclude con la monetizzazione tramite pubblicità, abbonamenti e donazioni. È lo stesso schema dei contenuti legittimi, ma basato su violenza e assenza di consenso.
Per questo le soluzioni devono colpire anche il lato economico: bloccare i circuiti pubblicitari e i pagamenti, imporre regole più stringenti alle piattaforme, finanziare chi supporta concretamente le vittime. E serve un cambiamento culturale: smettere di minimizzare, riconoscere che chi partecipa è parte della violenza. Solo così si potrà davvero spezzare l’economia dell’abuso.