Chi ci guadagna dal genocidio?
Il recente rapporto From economy of occupation to economy of genocide di Francesca Albanese rivela come dietro la devastazione di Gaza vi sia un intreccio di aziende produttrici di armi, colossi tecnologici, banche, fondi di investimento e persino organizzazioni che, a vario titolo, partecipano a un sistema globale di guadagno. Un sistema che trasforma la sofferenza di un popolo in profitti miliardari.
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di La redazione

Da quando, dopo i fatti del 7 ottobre 2023, l’esercito israeliano ha iniziato le sue operazioni militari nella Striscia di Gaza, il vortice di violenza nei confronti della popolazione palestinese ha conosciuto un incremento progressivo ed inesorabile. Al punto che, con sempre maggiore decisione, a livello internazionale sono diverse le voci istituzionali e provenienti dalla società civile che si sono esposte nel denunciare l’attuazione di un vero e proprio genocidio. Tra queste, quella di Francesca Albanese, Relatrice Speciale ONU per i diritti umani nel Territorio Palestinese Occupato, la quale a più riprese si è spesa per mettere in guardia il mondo dalle reali mire espansionistiche che il governo Netanyahu nutre da tempo. E, soprattutto, sulle complicità sotterranee che le stanno favorendo.
L’economia dietro l’occupazione
In un suo recente rapporto, pubblicato il 30 giugno scorso e intitolato From economy of occupation to economy of genocide, Albanese ha infatti messo in luce quanto profondo sia il legame tra conquista, distruzione e guadagno. Il genocidio, insomma, con annesso il silenzio di chi non lo condanna fermamente, conviene. Non soltanto allo Stato di Israele, che aspira ad impiantare nuovi insediamenti coloniali in territorio palestinese, ma anche a tutte quelle realtà che, più o meno direttamente, si sono lanciate in un giro d’affari redditizio. Aziende produttrici di armi, naturalmente, ma non solo: secondo il rapporto, sono diversi gli attori coinvolti. «Dalle imprese di costruzione alle banche, passando per università, fondi pensione, società tecnologiche e assicurazioni. Senza dimenticare il ruolo ambiguo anche di alcune organizzazioni no profit». Ma come funziona la “macchina” dell’occupazione?
Dal cemento al cloud: come si alimenta la macchina bellica israeliana
Tutto comincia, per così dire, dagli strumenti più impiegati per la distruzione sistematica del territorio palestinese: ovvero ruspe e macchinari pesanti. Secondo il rapporto, alcune delle principali aziende produttrici di escavatori e macchinari pesanti – tra cui la statunitense Caterpillar, la coreana Hyundai (tramite Doosan), e la svedese Volvo – sono parte integrante dell’apparato di demolizione impiegato da Israele nei territori occupati. I loro mezzi sono stati utilizzati, spesso con loghi oscurati e attraverso operazioni di vendita che aggiravano le regole, per abbattere abitazioni, luoghi di culto, scuole, ospedali, strade e campi agricoli. Il risultato? Il 70% delle infrastrutture e dell’81% delle terre coltivabili a Gaza non esiste più.
E se ingenti sono stati i danni materiali alla Striscia, non meno influenti sono stati quelli, per così dire, informatici. Forte delle partnership preesistenti con giganti del mondo tech come Google, Amazon, Microsoft, IBM, che negli anni hanno fornito a scopo civile servizi cloud, data center e sistemi di intelligenza artificiale, il governo israeliano ha avuto vita facile nel riconvertire questo patrimonio tecnologico in apparati militari. Che si sono rivelati cruciali per tracciare con successo obiettivi specifici. Infrastrutturali, certo, ma anche umani.
Chi ci guadagna
Prevedibili, poi, sono i benefici che le aziende israeliane dedite alla produzione di armi – già da prima del conflitto tra le principali al mondo per volume di esportazione – stanno traendo. Tra il 2023 e il 2024 realtà Elbit Systems (privata) e Israel Aerospace Industries – IAI (statale) hanno toccato profitti record, in virtù del fatto che la spesa militare israeliana è cresciuta del 65%, per un totale di 46,5 miliardi di dollari. Ma anche altri paesi hanno contribuito ad aggravare il quadro.
Gli Stati Uniti, ad esempio, attraverso il prestigioso MIT di Boston, collaborano con gli israeliani nella realizzazione di droni armati sempre più sofisticati. E c’è spazio anche per l’Italia: il nostro Paese è, infatti, in trattative per acquisire tecnologie di sorveglianza da aziende israeliane, come parte di accordi bilaterali. Un dato su cui il rapporto invita a riflettere: «è eticamente accettabile – si chiede – questo tipo di rapporto economico con un paese al centro di accuse per crimini internazionali?».
La finanza che alimenta la guerra
Ultimo, ma non certo per rilevanza, il ruolo di quelli che il rapporto definisce come i “facilitatori” economici. Tra il 2022 e il 2024, la spesa militare israeliana è salita all’8,3% del PIL. Per coprire queste spese, Israele ha emesso miliardi in titoli di Stato. BNP Paribas, Barclays e altre grandi banche li hanno acquistati, contribuendo a mantenere stabile la fiducia dei mercati. Anche i giganti della gestione patrimoniale, come Blackrock (68 mln $), Vanguard (546 mln $) e PIMCO (960 mln $), risultano tra i 400 investitori in titoli israeliani. Persino il fondo sovrano norvegese GPFG, pur vantando una politica etica, ha aumentato del 32% i propri investimenti in Israele dopo ottobre 2023, arrivando a 1,9 miliardi di dollari.
Alla fine del 2024, quasi il 7% del suo valore era investito in società legate al conflitto. In parallelo, dati di BankTrack mostrano che banche d’investimento come Goldman Sachs, Deutsche Bank, JPMorgan e Bank of America hanno sottoscritto miliardi in obbligazioni israeliane. Anche l’italiana Bper Banca compare tra gli investitori con 99 milioni di dollari. Il tutto, sottolinea infine il rapporto, «in pieno contrasto con le chiare linee guida ONU (1948), che obbligano gli stati membri ad astenersi da qualsiasi attività potenzialmente connessa, anche economicamente, con un piano di genocidio». Ma, si sa: pecunia non olet. Nemmeno a Gaza.