Addio al salario minimo: l’Italia punta sui contratti collettivi
Dopo anni di discussioni e promesse, l’Italia ha finalmente compiuto un passo avanti con la pubblicazione, lo scorso 3 ottobre, della Legge Delega sul salario minimo. Una riforma che, però, prende una direzione diversa da quella auspicata dal centrosinistra: niente soglia fissa dei “9 euro l’ora”, ma il rafforzamento dei contratti collettivi nazionali di lavoro più rappresentativi, chiamati a diventare il nuovo punto di riferimento per le retribuzioni minime.
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di La redazione

Per le opposizioni, sarebbe «l’unica scelta da fare per dare una prima risposta strutturale ai problemi del lavoro». Per il governo, invece, si tratta di una misura che finirebbe per «indebolire il welfare». Di certo si può dire che pochi temi abbiano polarizzato il dibattito politico e l’opinione pubblica come la possibile introduzione in Italia del salario minimo, ovvero una soglia di retribuzione alla quale ogni datore dovrebbe adeguarsi nel corrispondere la paga ai propri dipendenti. Dopo anni di attese, promesse, riforme annunciate, lo scorso 3 ottobre in Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata l’apposita Legge Delega: un passo in avanti rispetto alle attuali condizioni salariali di molti lavoratori italiani, che tuttavia non introduce quel famoso tetto di “9 euro l’ora” tanto invocato dal centrosinistra.
Cosa cambia, in concreto?
Come spiegato dalla sintesi elaborata da SkyTG24, piuttosto che stabilire un salario minimo legale unico e generale, l’Italia ha scelto di rafforzare i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) più rappresentativi, rendendoli il riferimento minimo obbligatorio per tutti i lavoratori del settore. Il contratto più diffuso in un determinato settore diventerà lo standard da seguire: ad esempio, se nel settore metalmeccanico il CCNL applicato più frequentemente è quello siglato da Federmeccanica e FIOM, tutte le aziende del comparto dovranno rispettare almeno quelle condizioni economiche e normative.
La riforma introduce anche lo stop ai cosiddetti contratti “gialli” — ossia contratti firmati da sindacati meno rappresentativi per sottopagare i lavoratori — e prevede maggiore trasparenza e controllo: le aziende dovranno indicare in busta paga il codice del CCNL applicato e saranno sottoposte a ispezioni.
Un punto di svolta… a metà
Per alcune tipologie di lavoratori, l’impatto sarà immediato e benefico. Coloro che erano pagati con contratti meno tutelanti o operavano in appalti e subappalti (pulizie, logistica, ristorazione, sicurezza…) avranno diritto almeno alla retribuzione stabilita dal CCNL principale del settore in cui lavorano. Nei settori dove la contrattazione è più debole, inoltre, la legge prevede l’applicazione di un contratto modellato su quello del settore più “affine” per evitare che continuino a sussistere dei vuoti di tutela.
Altro obiettivo della maggioranza è quello di mettere mano alla questione dei contratti scaduti da anni: a fine 2023, secondo le rilevazioni ISTAT citate da Fanpage, il 54% dei dipendenti non poteva fare riferimento ad un CCNL in corso di validità. Naturalmente, non tutte le aziende vedranno cambiamenti: se un’impresa già applica correttamente il CCNL principale, per quel lavoratore la busta paga potrebbe restare invariata. Le vere modifiche riguarderanno coloro che oggi sono sotto il livello contrattuale minimo o in settori meno protetti.
Le ricadute positive e le incognite
I potenziali benefici sono significativi. In primo luogo, la riforma potrebbe arginare i contratti pirata e il dumping salariale: le aziende che pagavano meno dovranno adeguarsi, migliorando così le condizioni di molti lavoratori. In secondo luogo, questa soluzione promuove maggiore equità tra le imprese: quelle che già rispettavano i contratti principali non saranno più penalizzate dalla concorrenza di chi pagava meno. Inoltre, l’obbligo di indicare il CCNL in busta paga e l’aumento dei controlli pongono le basi per maggiore trasparenza. Poiché l’intervento è calibrato per settore, evita inoltre l’applicazione di un salario minimo “one size fits all” che potrebbe essere troppo basso per alcuni ambiti e troppo alto per altri.
Ma esistono anche rischi e limiti. Un problema riguarda i settori in cui la contrattazione è debole e le imprese fragili: per loro l’allineamento al contratto più rappresentativo potrebbe restare solo sulla carta, con possibili reazioni come riduzione del personale o elusione delle norme. Altro rischio è la dipendenza dai sindacati: il successo della riforma passa per la capacità dei sindacati di rinnovare contratti, negoziare buone condizioni e vigilare sull’applicazione. Se non lo faranno, i minimi contrattuali potrebbero rimanere insufficienti per garantire un salario dignitoso. Da non sottovalutare anche la questione occupazionale: se il costo del lavoro aumentasse troppo rapidamente, alcune imprese potrebbero rallentare le assunzioni, soprattutto di giovani, o ricorrere al lavoro precario o part-time.
Uno sguardo all’Europa
La posizione dell’Italia rispetto alla questione risulta quindi piuttosto articolata. E, se guardiamo al contesto europeo, decisamente minoritaria. Secondo dati Eurostat, al 1° gennaio 2025 ben 22 dei 27 Paesi dell’UE avevano un salario minimo legale nazionale. A far compagnia all’Italia sono soltanto Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia. Nei Paesi che lo hanno adottato, i livelli sono piuttosto variabili: si va da circa 551 € al mese in Bulgaria fino a oltre 2.600 € in Lussemburgo. La Germania, dal canto suo, ha annunciato di voler innalzare la soglia, entro il 2027, a 14,60 euro all’ora.
Modelli diversi, entrambi potenzialmente ambivalenti: gli stati che adottano il salario minimo legale elevato offrono maggiore protezione, ma si fanno carico di costi del lavoro più rilevanti; quelli che invece preferiscono fare leva sulla contrattazione (che in Italia ha una storia quasi centenaria) tentano di adottare una soluzione “su misura”, ma dipendono molto dall’efficienza delle parti coinvolte.
La “via italiana”, se così si può definire, rappresenta insomma un modello a tratti inedito. Che scommette sulla maggiore responsabilizzazione delle parti sociali, datori di lavoro e sindacati su tutti. Ma che, al tempo stesso, le mette spalle al muro in caso di fallimento. E se è forse vero che il progetto del salario minimo uguale per tutti – come ha suggerito l’analisi di Maria Cristina Urbano su Huffington Post – sia da considerarsi pressoché naufragato, la sfida che attende il nostro Paese è di quelle ad alta difficoltà. Perché solo un sistema capillare, capace di conciliare esigenze diverse, di garantire alle imprese una rinnovata solidità e di vigilare con la giusta tempestività potrà rivelarsi vincente.