Boicottaggio, così le scelte dei consumatori influenzano il mercato, e non solo
Negli ultimi mesi, il conflitto tra Israele e Palestina ha riacceso un dibattito che va ben oltre la geopolitica: quello sul potere delle scelte di consumo. Di fronte a immagini di guerra e a rapporti che denunciano la complicità economica di alcune multinazionali, milioni di consumatori nel mondo hanno scelto di esprimere dissenso non con le armi, ma con il portafoglio. Ogni acquisto — o ogni rinuncia a comprare — è diventata così un gesto consapevole, capace di orientare i mercati, premiare aziende trasparenti e responsabili, e contribuire a generare cambiamenti sociali, ambientali e politici concreti.
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di Annie Francisca
Autrice specializzata sui temi di sostenibilità, esteri e diseguaglianze sociali.

«Popolo britannico, non vi chiediamo niente di speciale. Vi chiediamo solo di ritirare il vostro supporto all’apartheid non acquistando merci sudafricane».
Questa frase segna l’inizio del movimento di boicottaggio di merci nel 1959 da parte della Gran Bretagna, che mirava a isolare economicamente il governo sudafricano, impedendogli di ottenere vantaggi economici e politici attraverso il commercio, gli investimenti e le partnership internazionali. Questo movimento si sviluppò progressivamente negli anni Sessanta e Settanta, assumendo forme sempre più organizzate e diffuse: dalle campagne di disinvestimento promosse da università e sindacati, al boicottaggio di prodotti come vini, frutta e minerali sudafricani, fino a coinvolgere governi e organismi internazionali. Il movimento raggiunse il suo picco tra il 1984 e il 1989, contribuendo in modo decisivo a isolare economicamente il regime dell’apartheid fino alla sua fine ufficiale nel 1994.
L’origine del boicottaggio
Negli ultimi tempi, con il conflitto tra Israele e Palestina, si è tornato a parlare di boicottaggio. Di fronte a immagini di guerra e a rapporti che denunciano la complicità economica di alcune multinazionali, milioni di consumatori nel mondo hanno scelto di esprimere la loro contrarietà non con le armi, ma con il portafoglio, boicottando prodotti, servizi e aziende ritenuti coinvolti nel conflitto. Eppure, questo fenomeno ha radici storiche ben più antiche.
Il termine deriva dal nome di Charles Cunningham Boycott, un ex ufficiale britannico che, nel 1880, divenne amministratore di terreni in Irlanda per conto di un grande proprietario terriero inglese. Durante quel periodo, l’Irlanda attraversava una forte crisi agraria, e molti contadini chiedevano una riduzione degli affitti. Boycott, rifiutandosi di accogliere tali richieste, espulse diversi affittuari, provocando l’indignazione della comunità locale. In risposta, la Lega agraria irlandese – Irish Land League -, invitò la popolazione a non usare la violenza ma a “isolare” Boycott socialmente ed economicamente: nessuno doveva lavorare per lui, vendergli beni o fornirgli servizi. Il gesto ebbe un enorme impatto: Boycott rimase completamente isolato e il suo nome divenne sinonimo di una nuova forma di protesta non violenta ma economicamente e socialmente efficace.
L’influenza sul mercato, il boicottaggio funziona?
I numeri parlano chiaro: l’etica non è più un optional, ma una guida sempre più forte nelle decisioni di chi compra: circa il 65% degli europei dichiara di privilegiare prodotti etici e sostenibili, mentre in Italia quasi 6 consumatori su 10 orientano le proprie scelte verso marchi responsabili, anche a costo di pagare un premium. I prodotti con claim di sostenibilità registrano in media una crescita delle vendite superiore dell’1,5% rispetto a quelli tradizionali, e un miglioramento nei criteri di benessere animale può giustificare un prezzo più alto fino al 25% in alcune categorie, come latticini e uova.
Questi dati dimostrano che il comportamento dei consumatori può influenzare concretamente il mercato, premiando aziende responsabili e spingendo altre a rivedere le proprie pratiche. Allo stesso tempo, però, è importante ricordare che il boicottaggio diretto di un’azienda raramente provoca un vero e proprio fallimento. Come osserva il professore Brayden King, il suo vero potere non risiede nella perdita economica immediata, ma nella pressione reputazionale e mediatica che può generare. I boicottaggi più efficaci non sono quelli che svuotano gli scaffali, ma quelli che occupano le prime pagine, spingendo le aziende a rivedere comportamenti, politiche o partnership.
La storia lo dimostra: il boicottaggio contro l’apartheid in Sudafrica è stato determinante nel porre fine alla segregazione razziale, mostrando come l’azione coordinata di consumatori, istituzioni e media possa tradursi in cambiamento reale. Come ricorda la politologa Erica Chenoweth, basta il coinvolgimento attivo di circa il 3,5% della popolazione per innescare trasformazioni politiche concrete.
In questa prospettiva, il boicottaggio non è un fine, ma un catalizzatore: funziona quando diventa parte di un movimento collettivo più ampio, capace di unire protesta, consapevolezza e partecipazione per riscrivere le regole del mercato e della società.
Boicottaggio vs Buy-cott
Accanto al “no” del boicottaggio esiste anche il “sì” attivo del buycott: premiare con gli acquisti chi si comporta meglio (più trasparenza, lavoro dignitoso, minore impatto). Il termine circola in letteratura dagli anni ’90—l’economista dei consumi Monroe Friedman lo presenta come “alternativa al boycott” nei suoi lavori alla base del volume Consumer Boycotts (1999). Sul fronte dell’attivismo, fu rilanciato nel 2005 dal giornalista Jeff Cohen con l’appello “Join the BUY-cott” (campagna pro-Citgo), che spiegava proprio l’idea di spostare intenzionalmente la spesa verso chi incarna determinati valori. Oggi la ricerca sulle forme di “political consumerism” distingue chiaramente tra boycott (evitare) e buycott (selezionare), mostrando come entrambe siano leve di pressione economica e reputazionale.
Trasformare le scelte di consumo in atti politici
Nel suo senso più ampio, il boicottaggio dei consumi può essere interpretato come un atto collettivo di consapevolezza. Non si tratta solo di decidere se acquistare o meno un prodotto, ma di riflettere sul significato stesso del consumo: su ciò che scegliamo di sostenere con il nostro denaro, sull’impatto che generiamo e sulla reale necessità di ciò che compriamo. In questo modo, il boicottaggio diventa un invito a rallentare, a scegliere con criterio e a dare valore alla qualità e all’etica più che alla quantità. In questo scenario, il boicottaggio non è più un gesto isolato o di protesta temporanea, ma un tassello fondamentale di una nuova economia del consenso, in cui valori e mercato si incontrano per ridisegnare il futuro dei consumi.