L’app
di Rame

Avere molti figli è il nuovo status symbol

Un tempo erano le famiglie povere ad avere tanti figli: ogni nascita era una forza in più, un aiuto, una speranza di sopravvivenza. Oggi, nel mondo dell’incertezza e dei salari stagnanti, accade il contrario: avere molti figli è diventato un segno di privilegio, una forma di ricchezza che non si misura in oggetti ma in possibilità. Il Financial Times lo definisce il nuovo status symbol che ostenta lusso. Un riflesso delle disuguaglianze, ma anche del bisogno profondo di sicurezza e fiducia nel futuro.

Tempo di lettura: 6 minuti

Valentina Ciannamea
Valentina Ciannamea

di

Giornalista esperta di mondi digitali con un background da sociologa

Una famiglia numerosa come nuovo status symbol

Un tempo era esibire una Kelly di Hermes o una Lamborghini, oggi lo status symbol che ostenta ricchezza è avere una famiglia numerosa. Nel mondo dell’incertezza economica, della precarietà e della solitudine urbana, i ricchi mostrano qualcosa di diverso: non oggetti, ma abbondanza umana. Non il lusso dell’avere, ma quello del poter generare. Nel suo articolo “The ultimate status symbol? A big family”, il Financial Times racconta come crescere quattro o cinque figli — con scuole private, baby-sitter, tempo libero e vacanze internazionali — sia diventato un segno visibile di benessere e fiducia nel futuro. Un modo per dire: “posso permettermi la stabilità”. Nel capitalismo della scarsità, la speranza è diventata un bene di lusso.

Quando la famiglia numerosa era proletaria

Eppure, non è sempre stato così. Un tempo, le famiglie numerose erano il simbolo opposto: povertà, non privilegio. Ogni figlio era una forza lavoro, una garanzia di sostegno nella vecchiaia, un aiuto nei campi o in fabbrica. Nel mondo contadino e industriale, i figli erano risorsa, non investimento. Avere molti figli significava sopravvivere.

Le classi agiate, invece, ne facevano pochi: costava mantenerli, istruirli, preservarli. Nel Novecento, la natalità era quasi una cartina tornasole della ricchezza: più poveri = più figli; più ricchi = meno figli. Poi, con l’urbanizzazione, la scolarizzazione e l’ingresso delle donne nel lavoro, tutto è cambiato. Un figlio ha smesso di essere una risorsa economica, diventando un costo economico e simbolico.

Dal figlio come braccia al figlio come progetto

Il punto di svolta è arrivato negli anni Settanta. L’Italia cresceva, le città si riempivano, la scuola si allungava, le donne lavoravano. In pochi decenni, il figlio ha smesso di essere una risorsa produttiva e ha iniziato a essere un progetto di vita: non più braccia che aiutano, ma persone da crescere, educare, formare. E improvvisamente, fare figli non era più un obbligo sociale, ma una scelta individuale — una scelta che richiedeva tempo, reddito, e soprattutto fiducia.

Negli anni Cinquanta una donna italiana aveva in media 2,4 figli; negli anni Settanta la media era scesa a 1,9; nel 1995 si era già attestata a 1,2, dove sostanzialmente è rimasta da allora. Oggi, secondo l’Istat, nel 2023 il tasso di fertilità è di 1,20 figli per donna, il minimo storico. Le nascite annuali sono scese sotto le 400.000 — meno che durante la Prima guerra mondiale — e negli anni a seguire si prevede un ulteriore calo.

Il fenomeno è europeo: la media UE è 1,4 figli per donna, con la Spagna ferma a 1,2, la Germania a 1,4, la Francia (pur con politiche più solide) in discesa a 1,8. Solo pochi Paesi — in particolare quelli dell’Africa subsahariana, dove il tasso medio supera ancora 4,0 figli per donna — mantengono livelli di fertilità elevati.

Ovunque altrove, il modello della famiglia numerosa è diventato una rarità statistica. E non perché i desideri siano cambiati: secondo l’Eurobarometro, la maggior parte degli europei continua a desiderare due o più figli, ma meno della metà riesce a realizzarlo. Non per scelta, ma per condizione.

Il figlio come segnale di ricchezza

Eppure, proprio per questo, avere figli sta tornando a essere un segno di distinzione. Nel 2024, secondo il Codacons, crescere un figlio in Italia costa in media tra 120.000 e 180.000 euro fino ai 18 anni. L’Osservatorio Federconsumatori stima che per una famiglia con reddito medio il costo reale — considerando istruzione, salute, tempo libero, tecnologia e spese abitative — superi 190.000 euro. Per i redditi medio-alti, nelle grandi città, la cifra può arrivare a oltre 300.000 euro, soprattutto se si includono università, corsi extrascolastici e viaggi studio.

A titolo di paragone: negli anni Novanta, la stessa stima oscillava tra 90.000 e 110.000 euro. In trent’anni, il costo della genitorialità è cresciuto di oltre il 60%, mentre i salari reali sono rimasti pressoché fermi. Cifre che raccontano un paradosso: avere un figlio è diventato un atto di investimento, non di espansione. Avere tre figli oggi equivale, letteralmente, a comprare una casa di medie dimensioni a Milano o Roma.

Chi riesce a farlo comunica qualcosa di più del semplice benessere economico: comunica una forma di serenità, di fiducia nel futuro, la sensazione di potersi permettere il tempo, la cura, l’imprevisto. E così, la famiglia numerosa torna a essere un simbolo di status: non più perché serve alla sopravvivenza, ma perché rappresenta una conquista inaccessibile ai più.

La nuova estetica del privilegio

I social hanno amplificato il fenomeno. Le “trad wives” – le “mogli tradizionali” – e le mamme influencer con quattro bambini e cucine perfette hanno trasformato la maternità in un brand aspirazionale: armonia, casa, equilibrio, abbondanza. È un racconto estetico, non realistico. Dietro la patina di lino e legno chiaro ci sono tate, nonni presenti, tempo libero e stipendi alti.

Su TikTok e Instagram, l’hashtag #tradwife ha superato i 500 milioni di visualizzazioni, mentre #momlife e #motherhood insieme superano i 30 miliardi: numeri che raccontano una maternità sempre più spettacolarizzata, ma anche sempre più diseguale. Nel feed non si vedono le notti insonni o le fatiche quotidiane, ma una rappresentazione patinata della cura, dove il benessere è misura di ordine e disponibilità di risorse.

Le aziende seguono la scia. Dai passeggini firmati Dior (3.300 euro) ai marsupi in cashmere venduti come “la Birkin delle mamme”, fino ai baby club esclusivi che promettono stimoli trilingue a un anno di età, tutto il mercato dell’infanzia è diventato una vetrina del capitale culturale e sociale. L’educazione, i viaggi “esperienziali”, la scelta della scuola o del pediatra “olistico” diventano segnali di appartenenza a una classe. Nel capitalismo della rappresentazione, anche la genitorialità è consumo: si misura in immagini curate, tempo libero e possibilità economiche. Non si tratta più solo di crescere un figlio, ma di performare la genitorialità giusta, quella che comunica equilibrio, amore e successo — senza mai mostrare fatica.

Un pronatalismo d’élite

Il rischio è chiaro: trasformare la nascita in una nuova frontiera della disuguaglianza. Il diritto alla genitorialità diventa privilegio; la maternità, un atto performativo. Chi può avere figli lo fa con orgoglio; chi non può o non se la sente, si trova immerso in una retorica che lo giudica. E mentre si celebra la famiglia come “bene comune”, le politiche reali restano fragili. Bonus bebè, assegno unico, incentivi fiscali: strumenti che aiutano, ma non risolvono. Perché il problema non è il costo di un pannolino, ma il prezzo del tempo. La carenza di nidi, la rigidità del lavoro, l’assenza di comunità di sostegno. In Italia, solo un bambino su quattro trova posto in un nido pubblico; e spesso le donne sono costrette a scegliere tra lavoro e maternità.

È la versione contemporanea della sicurezza economica: posso crescere molti figli, e non temere di cadere. Ma se avere figli diventa un atto eroico, o elitario, allora il problema non è la natalità: è il modello di società che la rende così difficile. Il vero lusso, oggi, non è moltiplicarsi. È vivere in un Paese dove fare un figlio non sembra un azzardo finanziario. Dove il tempo, il lavoro e la cura non sono privilegi, ma diritti condivisi.

Perché una società che rende la nascita un privilegio, ha già deciso chi potrà permettersi il futuro.

Condividi