L’app
di Rame

Intelligenza Artificiale e lavoro cognitivo: chi rischia davvero

Un nuovo studio di Microsoft Research su 200.000 conversazioni con Copilot mostra come l’AI influenzi concretamente le mansioni quotidiane, sollevando interrogativi sul futuro del lavoro: sarà un sostegno alla produttività o una fonte di precarietà? Tra opportunità di efficienza e rischi di disuguaglianza, capire chi e come sarà più esposto è il primo passo per governare il cambiamento.

Tempo di lettura: 4 minuti

Intelligenza artificiale e lavoro
Foto di Hamidu Samuel

Mentre una parte del dibattito pubblico si concentra spesso sui robot e sull’automazione industriale, l’intelligenza artificiale ha già messo piede nelle scrivanie di chi lavora con le parole. Giornalisti, insegnanti, traduttori, venditori: sono queste le categorie in cui l’AI generativa mostra il suo impatto più forte, come rivela un nuovo studio di Microsoft Research. Pubblicato nel luglio 2025, il paper ha analizzato 200 mila conversazioni di utenti americani con Copilot per capire come l’AI entri concretamente nelle mansioni quotidiane.

L’esito è chiaro: a essere più esposti sono i lavori legati all’informazione, alla scrittura e alla comunicazione. All’opposto, le professioni manuali e fisiche — dagli operatori ecologici ai tecnici di impianti — per ora sembrano toccate solo marginalmente. Già nel 2023 uno studio di OpenAI e University of Pennsylvania stimava che circa l’80% della forza lavoro americana avrebbe potuto vedere almeno il 10% delle proprie mansioni influenzate da sistemi di linguaggio avanzati. I nuovi dati non fanno che confermare quella previsione.

Automazione o supporto?

Il report distingue fra ciò che l’utente vuole fare e ciò che l’AI fa davvero. In quattro casi su dieci le due cose non coincidono: chi chiede di raccogliere dati riceve spiegazioni, chi vuole risolvere un problema tecnico ottiene un “tutor digitale”. Questo porta a una domanda classica: l’AI sostituirà il lavoro umano o lo renderà più efficace? Gli autori ricordano un esempio storico: l’introduzione degli sportelli ATM negli anni ’70. Dovevano far sparire i cassieri, ma in realtà — come spiega l’economista James Bessen nel libro “Learning by Doing” — hanno portato le banche ad aprire più filiali e a trasformare il ruolo dei dipendenti.

Le voci dei giuslavoristi

Sul fronte del diritto del lavoro arrivano avvertimenti chiari. Gianni Toscano (Università di Messina), in un saggio su EJCLS Adapt, scrive che la precarietà non è un incidente, ma “il risultato di scelte normative ed economiche”. Le piattaforme digitali, aggiunge, “offrono nuove opportunità ma sollevano questioni enormi sulle condizioni e sulle protezioni da garantire”. Anche Gemma Pacella, in una ricerca pubblicata su IRIS Università Politecnica delle Marche, insiste su un punto centrale: non conta solo se un lavoratore riceve ordini diretti, ma anche quanto è organizzato da altri — algoritmi compresi.

È il tema dell’“etero-organizzazione”, sempre più usato dalla giurisprudenza per definire se un rapporto di lavoro è davvero autonomo o, di fatto, subordinato. Anche l’ILO, l’agenzia ONU per il lavoro, ha segnalato che l’uso dell’AI e degli algoritmi rischia di ampliare le disuguaglianze e richiede nuove regole di trasparenza e contrattazione.

Salari e istruzione: nessuna garanzia

Dai dati Microsoft emerge che non esiste un legame forte tra salari alti e rischio di esposizione all’AI. Al contrario, settori meno pagati come vendite e amministrazione sono tra i più permeabili. Quanto alla formazione, chi ha una laurea risulta mediamente più esposto. Ma non è la laurea in sé a contare: il discrimine è se il lavoro è principalmente cognitivo e ripetibile, quindi facilmente “aiutabile” da un modello linguistico.

I limiti della fotografia

Gli autori del report sono cauti: non è sempre possibile distinguere le chat di lavoro da quelle personali, e Copilot non è l’unico strumento usato. Restano fuori, ad esempio, gli utilizzi di ChatGPT, Claude o Llama. Inoltre, non vengono catturate le attività più difficili da classificare: coordinare persone, prendere decisioni, gestire conflitti. Come, inoltre, nota Michele Faioli, professore associato di diritto del lavoro presso l’Università Cattolica, in un’intervista a IlFoglio, la normativa si muove ancora attorno a un modello di lavoro stabile e a tempo pieno, che però in molti casi “non riesce a tenere il passo delle novità e delle sfide offerte dagli algoritmi”. Tutto ciò che è ibrido o “assistito dall’AI” rischia di scivolare in una zona grigia senza tutele.

Perché ci riguarda

Se l’AI entra soprattutto nelle mansioni di scrittura, analisi e comunicazione, riguarda una parte enorme della forza lavoro italiana: giornalisti, impiegati, insegnanti, consulenti, venditori. In un Paese dove il lavoro cognitivo è spesso fragile e sottopagato, il rischio è che la tecnologia amplifichi precarietà e disuguaglianze. La domanda centrale è: chi raccoglierà i benefici di questa maggiore produttività? Se l’AI servirà solo a tagliare costi e organici, la forbice sociale si allargherà. Se invece verrà accompagnata da formazione, stabilizzazione e riconoscimento delle competenze, potrebbe diventare un’occasione di emancipazione.

Condividi