Il taglio dell’Irpef al 33% è davvero un vantaggio per il ceto medio?
Il nodo centrale della nuova Legge di Bilancio è il taglio dell’aliquota Irpef sul secondo scaglione di reddito: per chi guadagna tra 28.000 e 50.000 euro l’imposta scenderà dal 35% al 33%. Una misura che secondo le stime riguarderà circa 14 milioni di contribuenti. Ma l’impatto reale non è così lineare: la sterilizzazione prevista per i redditi oltre i 200.000 euro potrebbe funzionare solo in parte, mentre la progressività dell’imposta fa sì che a beneficiare maggiormente del taglio siano soprattutto i redditi più alti della fascia, riaccendendo il dibattito su chi, davvero, appartenga al “ceto medio” che la misura dovrebbe aiutare.
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di La redazione
È il ritornello tutto italiano che accompagna, alla fine di ogni anno, l’avvicinamento alla stesura e all’approvazione della Legge di Bilancio: abbassare la pressione fiscale e favorire i contribuenti appartenenti alle fasce di reddito medio-basse. Il tema è tornato ad essere centrale nelle ultime settimane in virtù della proposta, inserita nel Disegno di Legge 2026 e a più riprese annunciata dal Ministro Giorgetti, di intervenire sul secondo scaglione dell’aliquota Irpef – ovvero quella che riguarda i redditi da 28.000 a 50.000 euro – riducendola dal 35% al 33%.
La parte della riduzione che riguarda redditi molto alti (oltre 200.000 €), invece, sarà “sterilizzata”: sopra questa soglia l’effetto del taglio Irpef sarà ridotto. Una soluzione concreta, verrebbe da dire, per venire incontro a quei lavoratori che potrebbero ritrovarsi con qualche soldo in più in tasca al termine di ogni mese. Le cose, tuttavia, sono un po’ più complesse. E ciò spiega perché il provvedimento ipotizzato dalla maggioranza abbia generato – e stia generando – un seguito di polemiche e di opinioni contrastanti notevole.
L’idea del governo
Secondo i dati diffusi da Palazzo Chigi e riportati da Pagella Politica, il taglio della seconda aliquota Irpef, che in manovra avrà un costo di quasi 3 miliardi di euro, dovrebbe avere un impatto diretto su una platea di circa 14 milioni di lavoratori, 10 dei quali appartengono proprio al secondo scaglione di redditi e che, per la maggior parte, sono dipendenti.
Dalle simulazioni effettuate nelle ultime settimane, compresa quella de IlSole24Ore – si prevede che il risparmio medio annuo si aggirerà intorno ai 250 euro, con picchi che possono superare i 400 euro. Cifre certamente non imponenti, ma per molte famiglie del ceto medio comunque significative. Ma è proprio qui che la situazione “si complica” e che il provvedimento mostra il fianco ad alcune criticità.
Sgravi sì: ma pure equi?
Alle prevedibili rimostranze delle forze politiche d’opposizione, infatti, si sono sommati pareri autorevoli come quello di Banca d’Italia, secondo il quale la detassazione rischierebbe di favorire i redditi più alti. Questo perché, come ben spiegato dall’Ufficio parlamentare di bilancio – l’organismo indipendente che vigila sulle finanze dello Stato – «Il ddl prevede un taglio delle detrazioni d’imposta per i redditi oltre i 200.000 euro, in modo da sterilizzare (in tutto o in parte) il vantaggio. Ma solo un terzo circa di quei contribuenti (58.000 persone) ha detrazioni aggredibili che non siano state già tagliate da precedenti interventi normativi».
In sostanza, rischia di venirsi a creare un paradosso per cui un operaio riceverà uno sgravio fiscale pari, se non inferiore, a quello di un dirigente. A percepire gli effetti del taglio sull’Irpef, per via della sua natura progressiva, saranno insomma coloro i cui redditi appartengono alla parte alta della fascia (quindi tra i 40.000 e i 50.000 euro) e coloro che addirittura superano tale limite. Verrebbe allora da chiedersi: davvero la fascia media ne esce alleggerita?
L’equivoco del ceto medio
Per rispondere a tale quesito, bisognerebbe innanzitutto trovare un comune accordo sulla definizione di ceto medio. Sul tema, in un’intervista rilasciata a Fanpage, si è espresso Elbano de Nuccio, presidente del Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili, che ha elogiato lo sforzo del governo, ritenendo, però, l’azione del governo soltanto un primo di molti altri passi altrettanto necessari: «Si tratta del primo intervento che riguarda il ceto medio, dopo che le ultime due manovre avevano interessato i redditi medio-bassi attraverso l’accorpamento dei primi due scaglioni di reddito e la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti».
«Ma le polemiche nascono dal fatto che nel nostro Paese si continua ad equiparare il ceto medio ai ricchi. Nella realtà dei fatti, il ceto medio, a fronte di stipendi certo non elevatissimi, subisce il carico di una pressione fiscale davvero troppo elevata. È giusto che, con tutti i limiti imposti dalle limitate disponibilità di bilancio, si cominci a guardare finalmente anche a loro».
Si poteva valutare un’alternativa?
Sulla scorta di questa consapevolezza, Sebastiano Barisoni, giornalista e conduttore radiofonico, in un suo intervento a Radio24 ha voluto ribadire il concetto, prospettando anche una possibile “terza via” che la maggioranza avrebbe potuto prendere in considerazione: «La narrazione della tutela del ceto medio a seguito del taglio dell’aliquota non è del tutto esatta. Dei 3 miliardi previsti in manovra, 1 miliardo e 300 milioni sono destinati a tutti coloro che percepiscono un reddito superiore ai 50.000 euro».
«Ciò significa che anche chi guadagna 100.000 euro avrà un beneficio di 408 euro, come chi ne guadagna 50.000. Dobbiamo definire una volta per tutte cosa intendiamo per classe media. Non si può equiparare il dirigente da oltre 100.000 euro al suo dipendente, che guadagna un terzo. Se il governo avesse previsto una soglia più bassa per questo beneficio e non l’avesse lasciato fino a 200.000 euro, ma magari 100.000 o a 80.000, si sarebbe potuta aumentare la platea che avrebbe beneficiato del 33% e in tal modo un reddito da 60.000 euro avrebbe avuto un risparmio di 1.100 euro».
Il dilemma, dunque, rimane: il provvedimento è sufficiente a dare respiro alla fetta di lavoratori più tartassata dal fisco? Ma soprattutto: si rivolge ad un ceto medio burocratico o all’espressione del Paese reale?