Storia di una casa che non posso vendere

Era il sogno dei suoi genitori, che erano stati in affitto per una vita intera. Suo padre morì prima che i lavori iniziassero. Sua madre portò a termine l’impresa quasi fosse una missione. Un anno fa Natalia ha ereditato questa grande casa che fatica a mantenere. Ma che rappresenta la sua storia, le sue radici.

Tempo di lettura: 9 minuti

Natalia Pazzaglia

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Questa è la storia di Natalia Pazzaglia, 34 anni, consulente e storyteller nel mondo dell’impresa sociale. Ma è anche la storia di una casa. Quella in cui Natalia è cresciuta, a Bolsena, e che un anno fa ha ricevuto in eredità da sua madre.

«Io penso che le case, specie in Italia, non siano solo un valore economico. La casa è il luogo delle nostre radici».

Ma facciamo un salto indietro nel tempo. C’è un momento nella vita di Natalia in cui tutto è cambiato. È stato quando aveva 10 anni e suo padre, militare di carriera, appena sessantenne, muore.

«Mia mamma era andata in pensione l’anno prima per curare mio papà che era malato. Poi lui è morto poco dopo».

“Il sogno che stavano provando a realizzare da qualche anno era costruire una casa. Peccato che ci abbiano messo 8 anni per ottenere il permesso. E questo permesso è arrivato quando è morto mio padre. Quindi mia mamma si è trovata non solo a dover crescere me, ma anche alle prese con un’enorme avventura”.

La casa è grande e il costo da affrontare molto alto. Ma la mamma di Natalia non si risparmia.

«Secondo me l’ha vissuta come una missione. Costruire una casa da sola in un paese così piccolo non è stato facile. Io ricordo le litigate con i muratori, i piastrellisti, gli idraulici. Però penso che in quel momento sia stato un appiglio… “Mi concentro su questo pur di non lasciarmi andare ad altro”».

Ci vogliono tre anni per portare a termine l’impresa. Dopo una vita in affitto, il sogno dei suoi genitori diventa pietra e calcestruzzo. Di quegli anni, Natalia ricorda l’avventura di costruire assieme alla mamma qualcosa di completamente loro, l’entusiasmo di poter scegliere come arredare la sua camera, la gioia di possedere finalmente un giardino. Ma Natalia ricorda anche tutto ciò che all’improvviso non si è potuto più fare. Le vacanze saltate, l’attenzione a ogni spesa.

«Io ho la percezione che in quella fase ci sia stata ancora più consapevolezza del valore dei soldi e di quanto non potessero essere sprecati».

Quella consapevolezza è l’eredità emotiva che Natalia ha ricevuto da sua madre e prima ancora da sua nonna.

“Sono cresciuta sapendo che tutto ciò che riguardava i soldi era prezioso, consentiva di fare delle cose ma andava gestito con grande cautela. Ricordo che quando avevo 6 anni, mia mamma mi fece aprire il conto corrente alla posta. Pare che anche mia nonna avesse questa mentalità, perché anche lei, negli anni 20-30, lavorava. Il denaro, a casa mia, è sempre stato uno strumento di autonomia”.

Natalia inizia a lavorare molto presto. Lo fa per imitare i suoi coetanei che l’estate vengono ingaggiati nei bar e nei ristoranti di Bolsena, cittadina molto turistica. Ma sua madre non intende mandarla a lavorare in un bar,  le concede al massimo di lavorare da un fiorista. Così Natalia a 14 anni inizia a racimolare i primi risparmi e a spenderli in viaggi.

Qualche anno dopo, con quei risparmi, riesce a pagarsi un corso di formazione e un mese di volontariato in Africa, la prima di una lunga serie di esperienze in oltre 25 Paesi del mondo.

Natalia scopre la cooperazione internazionale è decide che quello è il suo mondo. Quando arriva il momento di scegliere l’università, si orienta dunque su Scienze Politiche. Sua madre però non è d’accordo.

«Aveva la preoccupazione che io trovassi un buon lavoro perché sapeva che non avrebbe potuto aiutarmi chissà quanto, e Scienze Politiche non le sembrava una facoltà particolarmente sicura. Quindi mi disse: “Se proprio vuoi studiare questo, te la paghi”».

«È stata una delle cose migliori della mia vita, perché è stato allora che ho iniziato a cercare dei collegi di eccellenza».

Lì Natalia incontra i suoi migliori amici e soprattutto riceve vitto e alloggio gratis, a patto che mantenga una media alta e faccia tutti gli esami in corso.

Una volta laureata, riesce effettivamente a entrare nel mondo della cooperazione. Trascorre un anno a Washington, facendo la consulente per una banca di sviluppo. Lì scopre il mondo dell’innovazione sociale e tocca con mano l’esperienza di imprenditori che uniscono l’impatto sociale alla mentalità business. Così, tornata in Italia, cerca lavoro in quel mondo. Ma presto si scontra con una realtà molto più complessa e amara.

“Il mio passaggio dall’organizzazione internazionale all’imprenditoria sociale ha significato passare da 2400 euro netti al mese a 400”.

«Capisco che l’organizzazione internazionale esentasse non è comparabile con la piccola organizzazione che inizia. Ma penso che questa debba darsi un tempo entro cui le persone che vi lavorano siano fatte crescere anche economicamente. Altrimenti tutto questo diventa elitario. Chi se lo può permettere può lavorare un paio di anni, chi invece ha bisogno di un lavoro sostenibile non può scegliere certe carriere».

Natalia ha una grande consapevolezza del proprio valore in termini economici. E cambia tanti lavori nel tentativo di farsi pagare il giusto.

“Avere iniziato a 14 anni mi ha fatto capire lo sforzo e la bellezza di lavorare. Probabilmente questo mi ha aiutata a non vedere i soldi come qualcosa di cui vergognarsi”.

«Salvo rari casi non ho mai accettato di essere pagata poco. Ho lasciato lavori perché secondo me non venivo pagata il giusto, per quanto li adorassi. Tuttora non so se le mie scelte mi abbiano portato i giusti frutti. Però io credo che possiamo pure cambiare il mondo, ma se non trattiamo le persone con cui lavoriamo con la stessa dignità con cui vorremmo che il mondo fosse costruito, questa incoerenza sul lungo termine la pagheremo».

La voglia di tornare all’estero è fortissima così Natalia trova lavoro a Berlino. Ci rimane fino a quando, 6 anni fa, sua mamma si ammala e lei si rende conto di non riuscire a essere presente come vorrebbe. Decide di dimettersi per tornare in Italia e avere maggiore facilità di intervento. Va a vivere a Torino, dove frequenta la scuola Holden e si compra un bilocale. Quando rientra nel mondo del lavoro lo fa da freelance, sempre nel no profit.

Un anno fa, la morte di sua madre. Al dramma emotivo si aggiungono infinite difficoltà pratiche.

“Il problema grande legato alla morte è che pensiamo sempre di avere tempo per mettere le cose a posto. Quando stiamo bene non ci vogliamo pensare. In realtà, quando non stiamo più bene non ci possiamo pensare. Serve un grande sforzo di volontà da parte di chiunque per occuparsi di cose per cui si spera di avere tempo”.

Natalia si ritrova a gestire molte questioni che potevano essere risolte quando sua madre era in vita. Un pezzetto di terreno edificabile su cui pendeva il pagamento di alcune autorizzazioni urbanistiche. Divisioni di beni all’interno della famiglia che costano 1500 euro per ciascun atto notarile, nonché una percentuale di tasse altissima rispetto al valore di ciò che ci si scambia.

«Ho trovato delle cose che mia mamma aveva fatto nei mesi in cui le hanno diagnosticato le metastasi. E mi sono commossa, perché lei probabilmente ci ha provato a mettere tutto a posto. Però io stessa ci sto impiegando oltre un anno per gestire l’amministrazione, la burocrazia. Non sono cose che riesci a fare in un paio di mesi».

La morte di sua madre è anche il momento in cui la grande casa di Bolsena torna prepotentemente nella sua vita.

«Ho ricevuto questa casa in eredità da mia mamma, quindi al momento sono proprietaria di due case, sono ricca per lo Stato italiano. Peccato che io mi sia trovata a pagare 8500 euro di tasse di successione, 9500 euro di notaio, 6000 euro di avvocato».

A queste si aggiunge un lungo elenco di altre spese per un totale di 29 mila euro.

Natalia può contare sui suoi risparmi ma per potercela fare da freelance, deve ricorrere a un vero e proprio business plan. Per prima cosa decide di affittare una parte della casa in estate come air bnb. Poi fa una cernita di mini cose di cui può liberarsi. E tra queste, la vendita dell’oro è tra le più remunerative.

L’unica cosa di cui è certa che non si può disfare, ma che da adesso in poi sarà un nuovo grande costo da affrontare, è proprio la casa.

“So che non posso venderla, perché questa è stata la cosa che ha salvato mia mamma”.

«Mi è molto piaciuto ciò che mi ha detto un’amica che ha perso i genitori più o meno alla mia età: “Guarda Nat, quando ho conosciuto quello che poi è diventata il mio compagno è stato cruciale avere ancora la casa dei miei perché quella casa è la mia storia, e farlo entrare in quella casa è stato riuscire a spiegargli da dove vengo e dove sono andata nella mia vita”».

Questo secondo grande lutto fa prendere coscienza a Natalia di quanto la morte sia un tabù nella nostra società. Fatichiamo a gestirla sia emotivamente sia a livello burocratico organizzativo. E intanto viviamo la pressione sociale di tornare a essere efficienti nel minor tempo possibile. Per questo Natalia decide di fondare la piattaforma Lasae.

«Ho iniziato questo progetto sul lutto, sulla morte, perché spero che qualcun altro possa gestire questa situazione meglio di quanto ho fatto io».

Ciò che Natalia ha capito è che non dobbiamo temere il momento in cui i nostri genitori si siedono per raccontarci come hanno pensato di sistemare le cose dopo di loro.

«Io penso che potrebbe aiutarci pensarla un po’ diversamente. Qual è l’eredità emotiva che mi vogliono lasciare le persone a me più care?».

“Nello scoprire come questa casa funziona, e tutte le magagne che nasconde, ho capito anche la vita di mia madre, tutti gli sforzi che ha fatto, quanto deve essere stato complicato per lei”.

«Nel momento in cui i nostri genitori si siedono con noi e ci raccontano a chi hanno pensato di lasciare le loro cose, ci dicono come funziona la pompa dell’acqua, loro ci stanno raccontando come hanno costruito la loro vita, ci stanno regalando ricordi. Per quanto sia un argomento difficile, penso che possa essere un momento di condivisione della vita perché attraverso le cose economiche noi viviamo».

“Forse una cosa che possiamo fare è immaginare questo momento come un modo di tenerli con noi quando non ci saranno più. Sfruttarlo per farci raccontare di loro”.

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