Io, stagista a 32 anni, non voglio più sentirmi in ritardo sull’orologio sociale
Giulia vive in equilibrio tra due visioni opposte della vita e del lavoro. Da un lato c’è l’impronta della sua famiglia d’origine, che le ha trasmesso l’importanza di uno stipendio sicuro. Dall’altro, c’è l’influenza del suo compagno, che le ha mostrato un approccio diverso: cercare un lavoro che non dia solo da mangiare, ma che rifletta chi siamo e ciò che vogliamo davvero essere. In questo contrasto, Giulia si muove tra aspettative, desideri e la costante ricerca di una strada che sia autenticamente sua.
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«Io penso che il mondo si divida in due tipi di pensieri: quelli che ritengono che bisogna lavorare, non lamentarsi e portare a casa lo stipendio; e quelli che invece dicono che si possono coltivare anche le passioni, cambiare strada e fare dei periodi in cui si mette in pausa l’idea di ricevere uno stipendio, perché poi magari questo porterà a qualcosa di più bello, più soddisfacente e anche forse più redditizio».
In questo momento, Giulia vive sospesa tra due visioni opposte: da un lato, quella della sua famiglia d’origine, ovvero la necessità di avere uno stipendio e la stabilità che ne deriva. Dall’altro, la visione del suo compagno, ovvero la ricerca di un lavoro che non dia solo da mangiare, ma che ci rispecchi.
La prima lezione di autonomia
Giulia ha 32 anni ed è originaria di Cesena, dove è cresciuta in una famiglia che non le ha mai fatto mancare nulla, ma che d’altra parte non l’ha guidata nel comprendere il valore di ciò che possedeva.
«Non ho mai dovuto rinunciare allo sport, piuttosto che alle serate con gli amici, perché i miei genitori non mi hanno mai messo di fronte a delle scelte. Ho anche questo ricordo di quando si doveva decidere se andare a studiare una lingua all’estero: era una spesa importante, in realtà, ma non mi veniva mai spiegato quanto costasse. Me ne sono resa conto solo più tardi, a posteriori, e ho capito che avrei dovuto apprezzarlo di più».
Giulia si accorge di quanto costi vivere la prima volta che, d’estate, decide di lavorare in uno dei tanti stabilimenti balneari della costa adriatica.
«Lavoravo e mi rendevo conto che c’erano dei ragazzi che magari dovevano farlo tutto l’anno: andavano a scuola, ma la sera — anche d’inverno — dovevano comunque andare a lavorare. È stato lì che mi sono davvero resa conto della fortuna che avevo io: la mia era una scelta personale, non una necessità. Lavoravo non perché ne avessimo bisogno, ma perché volevo farlo».
Il peso della sicurezza economica
Finito il liceo, Giulia vorrebbe studiare medicina. Quando però non riesce a superare il test di ammissione, sceglie una facoltà che le sembra affine, Farmacia, e si trasferisce a Bologna. Nella sua scelta pesa molto una convinzione che era forte nella generazione precedente.
«Nella mia testa, oltre all’idea di avere un buon stipendio, c’era quella che fosse legato a un buon titolo: un buon titolo uguale a un buon stipendio, uguale a una sicurezza. Invece non è sempre così. Probabilmente siamo un po’ la generazione che sta rompendo questo sistema, perché oggi ci laureiamo tutti, ma molte professioni sono ormai sature. E così, più che costruire una carriera, spesso si finisce semplicemente per sopravvivere».
Giulia entra all’università con il fardello delle aspettative familiari, sociali e personali.
«Mi sentivo di dover raggiungere degli obiettivi, perché avevo tutte le possibilità per farlo. Era più un pensiero del tipo: “Sono stata fortunata, quindi devo restituire tanto; ho le possibilità per farlo, non mi manca niente”. Mia mamma ci teneva molto che andassi bene a scuola: è iniziato alle elementari, è proseguito alle medie e poi, con il tempo, sono stata io a tenerci davvero tanto. Il liceo, secondo me, è un sistema che accentua le ansie di chi è già predisposto. E così anch’io mi aspettavo molto da me stessa».
Al secondo anno di Farmacia, però, Giulia si accorge che quel percorso non ha nulla a che fare – lavorativamente parlando – con Medicina. Potrebbe continuare, protetta dalla sicurezza dei genitori che le pagano retta e affitto. Ma è proprio quella sicurezza che inizia a pesarle
«Avendo questa volontà di essere autonoma, ho iniziato a rendermi conto di cosa costasse davvero la vita di uno studente fuori sede».
Giulia rinuncia così agli studi e comincia a lavorare full time in un bar. Per la prima volta, riesce a mantenersi totalmente da sola. Non per questo, però si sente realizzata.
«Avevo 22 anni, ma mi sentivo come se avessi sbagliato strada, senza alcun modo per cambiare o capire davvero cosa volessi fare».
Una nuova concezione
Proprio allora fa un incontro destinato a cambiare la sua vita.
«Ho incontrato il mio compagno, che proveniva da tutt’altra famiglia: molto più umile, con tanti fratelli e genitori separati. Lui aveva lavorato per tanti anni in fabbrica, ma era innamorato del mondo del cinema. Così, è andato a studiare cinema all’estero, ha imparato una lingua e ha intrapreso un nuovo percorso nonostante avesse più di trent’anni. Ha cominciato a lavorare nel mondo del cinema da ruoli più bassi, poi è cresciuto».
«È stato una vera rivelazione per me, perché mi ha mostrato che non esistono tappe prestabilite e che è importante esplorare le proprie passioni. Mi ha fatto render conto che le scelte possono essere riviste e le strade possono essere ripercorse a ritroso. E questo mi ha dato fiducia».
Con lui, Giulia scopre anche un modo diverso di relazionarsi con i soldi. E inizia a mettere in discussione molte delle certezze con cui era cresciuta.
«Se per caso una vacanza non ce la si può permettere un anno, non succede niente, si possono fare anche delle piccole cose. Non è necessario vivere solo esperienze grandi e costose. Lui è una persona che pensa che i soldi vadano e vengano: non è detto che si debba mantenere lo stesso livello per sempre, così come il lavoro può andare e venire. Ha uno spirito abbastanza positivo sotto questo aspetto e non è ossessionato dal risparmio. Probabilmente nella sua vita ha dovuto fare i conti con il dover risparmiare, ma adesso non è super attento: dice che i soldi vanno usati per stare bene e non per seguire le masse».
Oltre le aspettative
Giulia inizia a guardare ogni aspetto della sua vita da una prospettiva diversa: parte per esperienze di volontariato all’estero, e si concede finalmente la libertà di seguire una strada che sente sua. Si iscrive alla Facoltà di Cooperazione Internazionale a Bologna, e nel frattempo trova lavoro in un centro di accoglienza. Quel cambio di direzione, però, la fa sentire in ritardo rispetto all’orologio sociale.
«Mi sono laureata dopo mio fratello, quindi ho dovuto un attimo metabolizzare questa cosa. Il giorno della sua laurea, essendo io la maggiore, avevo sentito mio fratello dire ai suoi amici che era stato il primo a laurearsi in famiglia. Così ho dovuto fare un po’ i conti con questa aspettativa mancata».
Finita la triennale, Giulia e il suo compagno hanno il loro primo figlio. Lei continua a lavorare nel centro di accoglienza e decide di proseguire gli studi in Gestione dei fenomeni migratori. Per la prima volta, da quando ha cambiato corso di studi, i suoi genitori si offrono di darle una mano economicamente.
«Quando mi sono iscritta alla Triennale di Cooperazione Internazionale mi hanno detto che mi sarei dovuta finanziare da sola questo nuovo percorso, e io ho risposto di sì, certamente, e ho anche restituito metà dei soldi che avevano speso per sostenermi durante Farmacia. Dopo, per la magistrale, mi hanno offerto il loro aiuto economico, ma io ho risposto che ce l’avrei fatta da sola, perché era la verità: lavoravo, potevo permettermelo e, soprattutto, volevo farlo».
Dopo la nascita del suo secondo figlio, il contratto al centro di accoglienza non viene rinnovato. Giulia decide allora di rimettersi in gioco e si iscrive a un master in fundraising. Con la disapprovazione di molte delle persone che la circondano.
«Mi colpiscono i commenti quando mi dicono: “Potevi cercare di arrivare a un contratto indeterminato lì dove eri, provare a sistemarti, stare dietro ai figli…”. E questo mi fa una gran rabbia, perché penso: “Ma io posso avere la volontà di crescere e di volere di più?”»
Per ora, Giulia dal Master ha ottenuto solo uno stage extra-curricolare in un’organizzazione no-profit. Un’occasione preziosa per crescere professionalmente, ma priva di compenso. E questa assenza di retribuzione le provoca una strana sensazione.
«Per me è un po’ come tornare indietro, soprattutto perché faccio fatica a spiegare che in realtà sto lavorando. Anche se non è retribuito, quando dico “stamattina devo lavorare” mi sento un po’ in colpa a dirlo. Non so mai quali parole usare, perché non è lavoro nel senso tradizionale. È lavoro o non lavoro? Non so mai bene come chiamarlo, né come spiegare il valore di quello che sto facendo».
La mancanza di riconoscimento economico si intreccia con un altro bisogno: riuscire a garantire a suo figlio le stesse opportunità e sicurezze che lei ha ricevuto dai genitori.
«L’altro giorno volevo portare mio figlio al parco giochi. Ho visto quanto costava il biglietto — mio e suo — e già solo per due persone mi sembrava troppo. Non poter accedere a qualsiasi tipo di attività un po’ mi pesa, dover far quadrare i conti. Anche il fatto di non poter andare a fare un weekend fuori: tutto costa molto, quindi anche solo due notti fuori sono una bella spesa, soprattutto per una famiglia di quattro».
A Rame lo diciamo sempre: quello che pensiamo del denaro e del lavoro è profondamente influenzato dall’ambiente in cui siamo cresciute. Non è facile staccarsi dallo schema culturale che abbiamo assorbito da bambine, e non è detto che lo si debba negare nella sua totalità. Giulia in questo momento è in viaggio. Sta cercando di arrivare alla sua sintesi – unica e personale – di tutti i condizionamenti ricevuti nel percorso. È un viaggio affascinante, ma scandito da paure e sensi di colpa.
«Io penso che il mondo si divida in due tipi di pensieri: quelli che ritengono che bisogna lavorare, non lamentarsi e portare a casa lo stipendio; e quelli che invece dicono che si possono coltivare anche le passioni, cambiare strada e fare dei periodi in cui si mette in pausa l’idea di ricevere uno stipendio, perché poi magari questo porterà a qualcosa di più bello, più soddisfacente e anche forse più redditizio».
«Io voglio cambiare per il meglio, però ho dei momenti in cui mi butto giù, perché penso: “Starò facendo bene, per il contesto sociale in cui vivo?”. So che non è così, e mi sento un po’ in colpa. Faccio fatica a slegarmi da questo pensiero e, allo stesso tempo, dentro di me so che per essere davvero contenta devo avere un lavoro soddisfacente. Ci sto lavorando per poterci arrivare, ma a volte questo dubbio ritorna e mi butta giù».