Gestisco con cura le mie finanze, per potermi liberare dal pensiero dei soldi
Per Roberta, il denaro è un equilibrio delicato tra due spinte opposte: da una parte il bisogno di sentirsi al sicuro, dall’altra il desiderio di vivere con leggerezza. Eppure, queste due realtà si intrecciano, perché quando la sicurezza finanziaria c’è, ci si riesce a concedere il lusso di non pensarci troppo, come se quel senso di protezione aprisse le porte a una vita più libera.
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«Per me i soldi sono quel porto che poi sarà, spero, la mia prima casa, se mai riuscirò a comprarla, cioè una certezza a cui tornare ma anche qualcosa di cui liberarmi, da cui allontanarmi quando voglio».
Nel suo rapporto con il denaro, Roberta convive con due spinte apparentemente opposte: il bisogno di sicurezza da una parte e il desiderio di leggerezza dall’altra. Due condizioni che, anziché escludersi, sono l’una conseguenza dell’altra. Perché quando ci si sente finanziariamente al sicuro, allora ci si può anche prendere il lusso di dimenticarsi del denaro.
Il paradosso del risparmio
Roberta Cavaglià ha 27 anni, è una giornalista e consulente di comunicazione freelance. Da un anno vive a Barcellona, ma le sue radici affondano a Torino. È lì, dentro una famiglia legata a doppio filo alla storia della Fiat, che prende forma la sua prima idea di denaro.
«Io sono una delle tante persone in Piemonte che hanno entrambi i nonni che lavoravano alla Fiat e che erano operai. Non sono mai stati quadri, dirigenti… eppure, con degli stipendi da operai hanno fatto delle cose ora inimmaginabili. Un mio nonno ha tirato su una famiglia con tre figlie e una moglie che non lavorava, e l’altro mio nonno è andato in pensione prestissimo e si è comprato due case».
Dentro questa storia operaia Roberta rappresenta una sorta di paradosso.
«Col tempo ho capito di essere un tassello in un percorso di emancipazione. Sono una delle prime persone della mia famiglia — sia stretta che allargata — ad aver avuto il privilegio enorme di andare all’università, insieme a mio fratello. Vista così, è una cosa straordinaria… ma porta con sé anche un po’ di pressione. Nel senso: a livello di prestigio, di titolo, ci siamo arrivati. Ma a livello economico è difficile pensare di fare quello che ha fatto mio nonno — comprare due case. Anzi, anche solo riuscire a comprarne una».
Quei piccoli miracoli erano possibili da un rapporto salario/costo della vita differente rispetto a oggi. Ma anche da una certa visione del risparmio che, in casa di Roberta, è quasi una religione.
«Mio papà è molto attento ai soldi. Ha ereditato dai miei nonni un’etica del risparmio molto forte — tipica, tra l’altro, anche dei piemontesi. Ma a volte questo atteggiamento sfocia in una vera e propria privazione».
Il godimento, se meritato, nella famiglia di Roberta diventa una sorta di Carnevale, in cui ogni regola viene ribaltata.
«In vacanza il discorso dei soldi viene un po’ messo da parte, come se si aprisse un mondo parallelo. È uno spazio separato dalla vita quotidiana, dove non si fanno spese folli, ma allo stesso tempo non si sta a controllare tutto. Poi però si torna a casa… e quel mondo si richiude.»
In questo equilibrio sottile tra il mondo solido e prevedibile della generazione precedente e quello fluido in cui lei stessa sta cercando di costruirsi un posto, Roberta sente il peso del privilegio di cui ha goduto.
«Io e mio fratello ci sentiamo un po’ come l’investimento della nostra famiglia. I miei genitori non hanno avuto alle spalle persone che credessero in loro. Credo che entrambi avrebbero potuto fare l’università, ma in famiglia non c’era né un figlio “prescelto” per studiare mentre gli altri si adeguavano, né un progetto preciso: semplicemente “trova un lavoro qualsiasi che ti capita”. Non c’è una pressione esplicita, però so che i miei hanno creduto in me e hanno sacrificato parte del loro patrimonio per mandarmi all’università, soprattutto da fuorisede».
Una strada già tracciata
Infatti, finite le superiori, Roberta decide di trasferirsi a Forlì per frequentare l’Università in mediazione interculturale.
«Io ho studiato traduzione e volevo farlo nelle università migliori d’Italia, perché, essendo un lavoro molto precario, ho pensato fosse importante studiare in un posto che ti dia un vantaggio. Ho dovuto un po’ convincere i miei, spiegando loro la lista delle università e i motivi per cui volevo andare lì. I miei sono persone che, se gli spieghi bene le ragioni, prendono decisioni basate su fatti e argomentazioni».
I suoi genitori la supportano economicamente durante tutti gli anni universitari.
«Penso che mi dessero circa 500 euro al mese, una cifra che cercavo di non superare. Se invece dovevo superarla, dovevo giustificare bene la spesa, argomentando con loro. In fondo, credo che il cuore del dialogo con la mia famiglia sia proprio l’arte di argomentare».
Dopo aver concluso la Triennale, Roberta commette un errore che si rivelerà decisivo: dimentica di inviare la domanda di ammissione alla Magistrale che aveva scelto.
«Mi ricordo benissimo: ero in Grecia, mi sveglio una mattina come se fossi tornata dal mondo dei morti, pensando “Oddio, non mi sono iscritta!”. Era l’università in cui avevo detto a tutti che volevo entrare, il mio unico destino manifesto. Mi alzo e capisco in pochi minuti che le iscrizioni erano già chiuse».
Il cambio di rotta
Roberta decide così di iscriversi a un’università “di ripiego”, ma il percorso si rivela presto insoddisfacente. Così, mentre matura la decisione di riprovare il test l’anno successivo, quel vuoto si trasforma in uno spazio di esplorazione.
«Quel passo indietro mi ha aperto porte che non immaginavo di avere davanti. Scoprivo il mondo della comunicazione, del giornalismo, e capivo che saper bene una lingua ti dà accesso a molte più fonti rispetto a chi non la conosce. Inoltre, la capacità di tradurre stimola una creatività e una sensibilità nel far arrivare un messaggio, qualità fondamentali per lavorare nel mondo della comunicazione».
Spinta da questa curiosità, scrive il suo primo pitch per un articolo e lo invia a una rivista. Con sua sorpresa, viene accettato.
«Ricordo ancora l’emozione e la gioia totale di quei mesi dopo, quando mi arrivò una mail che diceva: “Ci devi mandare una fattura”. In quel momento ho pensato: è la prima volta che qualcuno mi paga per scrivere. È stato un momento meraviglioso».
Per quel primo articolo, Roberta riceve un compenso di appena 50 euro.
«Che, in realtà, è una cifra molto in linea con i compensi italiani. Consiglio a tutti di visitare una pagina chiamata “Lo spioncino dei freelance”. Parla di quanto pagano realmente le redazioni italiane. È un’esperienza traumatica ma utile, perché c’è molta omertà su quanto guadagnano i giornalisti a pezzo. Spesso si pensa che più un giornale sia autorevole, più si venga pagati, ma non è così. E poi, non so quale sia la percezione dall’esterno sul valore di un articolo, però i numeri spesso non rispecchiano il tempo e il lavoro necessari per scriverlo».
Intanto, con un gruppo di amiche, dà vita a una pagina Instagram dedicata alla divulgazione di tematiche femministe.
«La pagina si chiamava Flair, con il sottotitolo “Per le notizie femministe ci vuole fiuto”. Lavorandoci direttamente, ho imparato a scrivere per i social, a creare grafiche, e quando la pagina ha avuto successo, ho iniziato a ricevere i primi clienti nel campo della comunicazione. Parallelamente, ho continuato a inviare pitch ad altri giornali, costruendo così una formazione informale sia nel giornalismo che nella comunicazione».
Delineare i confini
Nel frattempo, Roberta riesce a entrare nella facoltà che sognava, quella di Traduzione a Trieste. La sua vita lavorativa, invece, dirotta sempre più decisamente verso il mondo della comunicazione. Dove inizia a capire che i no sono importanti quanto i si.
«Oggi si negozia, si chiede, si valuta tutto con più attenzione, ma all’inizio non era così. Col tempo impari una cosa forse banale: dire no a certe opportunità che, anche se pagate bene o più del dovuto, non valgono la pena perché la tua carriera sta prendendo una direzione diversa».
Benché in famiglia avesse avuto esempi di tutt’altro tipo, la scelta della libera professione è perfettamente consapevole.
«Secondo me la follia è essere dipendenti, mettere tutte le uova in un solo paniere. Certo, esiste la disoccupazione, ma se un cliente domani decidesse di non lavorare più con me, ne ho altri quattro o cinque e in qualche modo me la cavo. Ho anche una rete di persone che conosco, a cui posso dire: “Ciao, mi è successo questo, lavoro in questo settore, se senti qualcosa fammi sapere”. Mi piace anche il fatto di poter essere io a decidere: “Guarda, tra di noi è finita”».
La sicurezza economica
L’indipendenza economica, per Roberta, arriva un anno fa, quando va a vivere da sola, a Barcellona. In questo nuovo assetto, indipendente, residente all’estero e partita Iva, Roberta inizia anche a gestire minuziosamente le sue finanze.
«L’app per tenere traccia delle spese è la mia migliore amica, e sono stata introdotta a questo favoloso mondo dei file Excel. Nessuno, né all’università né il commercialista, ti prepara davvero ad avere una partita IVA. Spesso parlano una loro antilingua, difficile da capire. Per me è fondamentale monitorare quanto guadagno, quando incasso, quanto spendo e quanto riesco a mettere da parte. Oltre a un interesse quasi antropologico nel capire dove vanno i miei soldi, controllo tutto con cura e a fine anno stilo un budget mensile. Questa è un po’ la mentalità che ho ereditato da mio padre: potrei spendere di più, ma preferisco avere tutto sotto controllo».
Roberta si affida a piattaforme digitali che le permettono di calcolare quanto destinare all’Erario, aiutandola a tenere sotto controllo obblighi fiscali e sostenibilità dei suoi progetti.
«Mi dà molta sicurezza poter fare i calcoli da sola e vedere quanto dovrò pagare di tasse e contributi, cosa che non è affatto scontata. Ho passato un paio d’anni con un commercialista “classico”, ma spesso non avevo idea di quanto dovessi effettivamente versare e dovevo stimarlo da sola, con un margine di errore abbastanza ampio, visto che le regole cambiano ogni anno. Ora che una parte di questi calcoli li fa un sistema automatico, mi sento molto più tranquilla e sicura».
Per Roberta è pressochè incredibile che qualcuno possa avere una gestione differente del denaro e in questo riconosce l’eredità preziosa della sua famiglia.
«Ricordo una volta, a Barcellona, una mia amica mi ha detto: “Io non so com’è la tua vita, ma io ogni mese spendo tutti i soldi che guadagno”. Dentro di me ho pensato: “Sei folle, sei fuori di testa!”, perché quella non è affatto la mentalità con cui sono cresciuta. Forse riuscirei a farlo, se fosse una sfida, ma credo che diventerei isterica».
Nel suo futuro, Roberta individua due obiettivi.
«So che prima o poi dovrò comprarmi una casa, quindi questo è il mio primo obiettivo. Ho poca fiducia nel sistema pensionistico, quindi mi piacerebbe anche fare qualcosa per il mio futuro in quel senso. Questi sono i miei due traguardi principali».
Curiosa di quell’ultima affermazione, le chiedo perché senta il dovere di comprarsi una casa.
«Molti alla mia età cominciano a immaginare e arredare la loro casa ideale. Io invece non ho ancora deciso dove voglio vivere né che tipo di mobili mi interessano. Quella casa immaginaria per me non esiste ancora: non ha un luogo preciso né un arredo definito. La vedo più come un porto sicuro, una certezza a cui tornare. Questo modo di pensare viene molto dalla mentalità della mia famiglia e, in generale, da quella italiana legata alla proprietà della casa. Per me è una sicurezza, ma non una casa da abitare in modo ininterrotto. È come il rapporto con la mia famiglia: un punto fermo bello e sicuro, ma che mi lascia libera di andare via con leggerezza».