Ogni mese verso 600 euro al mese sul conto di mio marito, che si occupa di crescere nostro figlio
Cosa accade quando è la donna a sostenere la famiglia mentre l’uomo si occupa dei figli? Fino ad oggi, abbiamo osservato il contrario: le donne si occupano delle attività di cura non remunerate, mentre gli uomini sono quelli che guadagnano. Un modello che ha portato a disuguaglianze economiche e sociali per il genere femminile. Ma è possibile evitare che questa divisione traduca in disparità? Scopriamolo seguendo la storia di Irene.
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«Ogni mese trasferisco 600 euro a mio marito, e con questi soldi lui paga le spese che deve affrontare, perché di solito è lui a occuparsi della spesa e dell’acquisto del cibo. Mi considero privilegiata per essere riuscita a tornare al lavoro dopo la maternità obbligatoria di otto settimane che c’è in Germania, e per avere un partner che si occupa della cura di nostro figlio, come genitore A o genitore 1, come si dice».
Cosa succede nella vita, economica e affettiva di una coppia quando è lei a sostenere la famiglia mentre lui si occupa di crescere i figli? Fino a oggi abbiamo potuto osservare e misurare le conseguenze dello schema opposto. Le attività di cura, non pagate, affidate alla donna. E quelle produttive e remunerate all’uomo. Un modello che ha causato perdita di libertà, esclusione sociale e una maggiore povertà del genere femminile. Ma c’è un modo perché questa divisione di compiti non si traduca in disparità? Proviamo a scoprirlo seguendo Irene nel suo racconto.
La dedizione allo studio
Irene Vercellino ha 35 anni ed è una scienziata che vive in Germania, dove è group leader di un importante istituto di ricerca, e una Junior Professor affiliata all’Università di Dusseldorf. Studia la struttura delle proteine e in particolar modo delle proteine che stanno nei mitocondri delle nostre cellule.
Nata a Biella, in Piemonte, sua madre è un’insegnante d’asilo, mentre il padre, chimico tintore in un’azienda nel biellese, nel 2008 perde il lavoro a causa della crisi e cambia completamente la sua traiettoria lavorativa, rilevando un negozio di cornici. Ma non perché ne avessero un reale bisogno economico.
«I miei genitori sono riusciti nel corso degli anni a costruirsi un patrimonio tale che non era più necessario che mio padre guadagnasse un surplus specifico per mantenere il livello di vita che hanno sempre avuto. La mia famiglia ha sempre avuto uno stile di vita piuttosto semplice: il denaro per noi è sempre stato un mezzo per coprire da una parte le necessità e dall’altra per investire nell’istruzione».
E infatti l’istruzione è sacra per la famiglia di Irene. Sia lei che i suoi due fratelli intraprendono percorsi accademici, frequentando Università e Master. Irene, in particolare, dopo il Liceo Scientifico, si trasferisce a Torino per studiare Biologia. E durante l’intero percorso universitario, non deve mai preoccuparsi del denaro.
«È sempre stata un’idea molto forte nella mia famiglia che, finché eravamo a scuola, il nostro compito fosse studiare. Per questo motivo, non abbiamo mai sentito la spinta di lavorare durante gli anni di studio, nemmeno d’estate. Addirittura, quando mi hanno assegnato una borsa di studio, io pensavo di utilizzarla per pagare le tasse universitarie o l’affitto, ma i miei genitori mi hanno detto: “No, tienili pure, sono soldi che ti sei guadagnata”».
Un mese dopo la laurea specialistica in Biotecnologia, Irene partecipa a un open day all’Università di Milano, dove sono presenti diverse aziende. Tra queste c’è Novartis, alla quale decide di lasciare il curriculum. Qualche mese dopo viene contattata: le propongono uno stage post-laurea a Siena.
«Mi pagavano 700 euro al mese, di cui metà andava per l’affitto, ma riuscivo comunque a mettere da parte qualcosa. Però, diciamo che sono stati mesi in cui andavo a mensa per pranzo, mangiavo circa la metà di ciò che potevo prendere e l’altra metà la mangiavo a cena. Ho fatto sei mesi di spending review. Ero perfettamente consapevole che questo non mi avrebbe reso economicamente indipendente a lungo termine. Se non avessi avuto la mia famiglia alle spalle, non avrei potuto fare questo tipo di scelta, assolutamente».
L’ambiente della ricerca scientifica
Lo stage le fornisce competenze in biologia strutturale e le permette di accedere a un dottorato in Svizzera, dove si trasferisce assieme al suo ex compagno. Guadagna 3000 franchi al mese.
«Avevo, diciamo, lo stipendio più basso del nostro gruppo di amici, nessuno dei quali aveva un’istruzione superiore».
«Anche se nessuno dei due guadagnava molto, eravamo comunque capaci di mettere da parte. Andavamo a sciare, ci siamo comprati la macchina… Avevamo uno stile di vita senza grosse restrizioni, ma essendo un minimo oculati, siamo riusciti a mettere da parte abbastanza. Siamo tornati in Italia con circa 80.000 euro».
Durante quei quattro anni di dottorato in Svizzera, il contratto di Irene viene rinnovato di anno in anno. Ma questo non le provoca alcuna preoccupazione. Oggi sa che anche quella leggerezza era figlia del privilegio.
«Io non ho mai pensato di avere un problema con il visto, perché avevo il permesso di soggiorno. Invece, adesso ho degli studenti che vengono da fuori Europa, quindi il loro permesso di soggiorno dura quanto il loro contratto di lavoro, e per loro cambia molto».
Finito il dottorato in Svizzera, Irene si trasferisce in Austria per un post-dottorato e il suo ragazzo torna in Italia, ad aspettarla.
«Avevamo deciso di investire parte di quello che avevamo messo da parte in Svizzera per comprare i mobili della casa in cui lui era andato a vivere, pensando che poi, a lungo termine, io sarei tornata. Ovviamente, nulla di tutto questo è successo, quindi quando ci siamo lasciati ci siamo un po’ divisi le cose, e da un punto di vista economico, non è stato un grande investimento».
Quando Irene si ritrova in Austria da sola, non ha alcuna difficoltà a ricominciare a risparmiare.
«In Austria gli stipendi sono più bassi, però il mio potere d’acquisto era più alto, soprattutto per quanto riguarda l’housing, per cui non ho avuto problemi a continuare a risparmiare.»
La scelta di non tornare
In Austria Irene ci resta per altri quattro anni e mezzo. Al termine di questo periodo le si presenta un bivio: da una parte un grant di un milione di euro che ha vinto allo Human Technopole di Milano per aprire il suo laboratorio in Italia, e dall’altra, una posizione di group leader in Germania.
«E visto che la situazione dei fondi per la ricerca in Germania era migliore, ho pensato che a lungo termine sarebbe stato meglio rimanere qui. È stato in quel momento che ho preso la decisione, abbastanza definitiva, di non tornare. Anche se poi, mai dire mai…»
Intanto, durante i mesi sospesi del Covid, Irene incontra in Austria l’uomo che diventerà suo marito. È un americano che si è trasferito lì dagli Stati Uniti mantenendo lo stesso posto di lavoro all’interno di una iconica fabbrica di cioccolato: la Lindt.
«Nonostante nessuno dei due fosse alla ricerca di una relazione seria, un po’ perché appunto era tutto chiuso, abbiamo cominciato presto a passare molto tempo insieme a casa. La relazione è poi andata avanti velocemente, e quando nel 2022-23 ho avuto la possibilità di venire in Germania, è venuto con me».
Il piano era che lui ottenesse un nuovo trasferimento nella sede locale della sua azienda. Dove cercavano una persona che facesse esattamente ciò che lui faceva in Austria, solo che doveva essere un ingegnere. Mentre lui non aveva alcun titolo accademico. Così, sfumato il piano originale, Irene e il compagno fanno un nuovo progetto di vita. Avere un bambino.
«Per la maggior parte della mia vita ho pensato che non avrei mai avuto figli, e solo il fatto di avere un compagno che si sarebbe occupato del bambino mi ha permesso di decidere diversamente e considerare l’opzione».
La disparità di genere
E così Irene continua a lavorare, fermandosi solo per le otto settimane di maternità obbligatorie previste dalla legge tedesca. Che però le stano strette.
«Quello che qui chiamano protezione della maternità non è altro che un rebranding delle limitazioni delle libertà delle donne, perché in Germania la legge prevede che, dopo il parto, la madre debba stare in maternità obbligatoria per 8 settimane. Questo significa che, durante queste otto settimane, la donna non può essere licenziata perché non è di fatto impiegata. Viene venduto come un modo per proteggere la donna dalla discriminazione o dal licenziamento, ma secondo me è una limitazione delle libertà. Per esempio, io, alla sesta settimana, avevo una conferenza e l’ho dovuta pagare come una vacanza, perché non ho potuto abbreviare la mia maternità.»
Riflettendo sulla propria esperienza, Irene arriva a mettere in discussione uno dei pilastri su cui si fonda il discorso pubblico sulla maternità: l’idea che le donne vadano “protette”. Una narrazione che, secondo lei, nasconde una realtà ben diversa e contribuisce a perpetuare disuguaglianze strutturali.
«Perché se le donne avessero veramente la libertà di utilizzare il mercato del lavoro come lo fanno gli uomini, non ci sarebbe bisogno di nessuna protezione. Ho avuto questa conversazione con una persona recentemente, e questa persona mi ha detto: “Però, pensando al bebè, il bebè ha bisogno della madre”. Non è vero, il bebè ha bisogno di qualcuno che gli stia dietro. E se guardiamo come funziona la maternità, non è assolutamente nell’interesse del bebè la situazione attuale, perché obbliga una persona che esce da un evento estremamente traumatico a occuparsi di un neonato. Quindi qual è la soluzione migliore? Che il padre prenda le otto settimane di paternità obbligatoria, durante le quali non può assolutamente lavorare perché deve occuparsi del bambino, e la madre stia in malattia, giustamente, perché è appena uscita da un parto».
La pianificazione di coppia
In questa insolita dinamica di relazione, la gestione delle spese non è affidata al caso, come spesso avviene quando i ruoli sono invertiti. Irene si occupa di tutti i costi fissi, come affitto, bollette e utenze. E versa ogni mese 600 euro sul conto di suo marito. Per le spese quotidiane ma anche per i suoi bisogni.
«Per un certo periodo, quando ci siamo trasferiti in Germania, lui aveva dei soldi suoi da parte che ha utilizzato finché sono finiti. Da quando ci siamo trasferiti, me l’ha detto e io gli ho chiesto: “Dimmi quanto ti serve.” E lui mi ha risposto 600 euro, quindi io gli do 600 euro».
Negli ultimi anni Irene, essendo l’unica persona che guadagna in famiglia, ha iniziato a sentire la pressione economica della pianificazione a lungo termine del futuro dei figli.
«Ho anche cominciato a fare un piano di investimenti e l’ho diviso in due parti: una parte è un piano di investimenti più a basso rischio, giusto per contrastare l’inflazione, mentre l’altra è un piano di accumulo per nostro figlio».
Conscia del potere economico che il suo ruolo le conferisce all’interno della coppia, Irene coinvolge attivamente il marito in ogni decisione finanziaria, condividendo ogni scelta per mantenere un equilibrio e una piena trasparenza nella gestione del denaro.
«Secondo me uno dei motivi principali per cui le coppie vanno in crisi sono i soldi, soprattutto quando non siamo sullo stesso piano dal punto di vista del potere economico. È mio dovere renderlo partecipe il più possibile, perché sono cosciente di avere su di lui il controllo economico e non voglio abusarne. Voglio che sia chiaro cosa entra e dove finisce, e cosa esce».
Per ora, il compagno di Irene sembra sereno. Forse perché la scelta di uscire momentaneamente dal mondo del lavoro non ha la stessa valenza per un uomo e una donna.
«Abbiamo avuto questa conversazione più volte e continuiamo a parlare delle finanze e anche di quando nel futuro lui tornerà a lavorare. Mi sembra che sia abbastanza tranquillo su questo, che non gli dia particolarmente fastidio. Secondo me, forse anche perché è un maschio, perché io mi sono informata molto, soprattutto negli ultimi anni, su tematiche come il lavoro non pagato, che spesso ricade sulle spalle delle donne, e sulla questione della non dipendenza finanziaria, che può portare anche all’abuso. Forse ho una sensibilità diversa rispetto alla sua. Forse lui è un po’ come ero io quando ero una studentessa di dottorato, che pensava: “Ah sì, non importa se ho il contratto di un anno, va bene, poi me lo rinnovano e quindi va tutto bene”».