L’app
di Rame

Da 3 anni, dono il 10% del mio reddito

Negli ultimi anni, Luca ha intrapreso un percorso personale che lo ha portato a una scelta fuori dall’ordinario: devolvere il 10% delle sue entrate a progetti solidali. Non è stata una decisione impulsiva, ma il frutto di un lungo interrogarsi sul significato dell’impatto personale e sul valore concreto della generosità. Donare, per lui, è diventato non solo un atto di aiuto verso gli altri, ma anche un modo per ridefinire la propria relazione con il denaro e con il mondo. In questa puntata ci racconta come è nato questo impegno, e in che modo, sorprendendolo, ha cambiato anche lui.

Tempo di lettura: 12 minuti

blank
Luca Stocco

Ascolta il podcast della puntata:

«Con Rame volete combattere il tabù attorno ai soldi, ma secondo me esiste anche un altro tabù: quello legato alle donazioni. Chi parla apertamente delle proprie donazioni e dell’impatto positivo che genera spesso viene guardato con sospetto, come se volesse mettersi in mostra o avesse un secondo fine. In realtà, questo tabù è dannoso perché se io mi impegno pubblicamente a donare il 10%, non solo faccio del bene attraverso le mie donazioni, ma posso anche ispirare altre persone a fare lo stesso. E se anche solo una persona segue il mio esempio, il mio impatto si raddoppia».

Tra le scelte più significative che Luca ha fatto negli ultimi anni c’è quella di donare il 10% del suo reddito in beneficenza. Una decisione che nasce da una riflessione profonda su che cosa significhi avere un impatto nel mondo — e su quanto il dono, se fatto con consapevolezza, possa trasformare non solo chi riceve, ma anche chi dà. Nella puntata di oggi, Luca ci spiegherà come è arrivato a questa scelta. E che cosa, lungo la strada, ha ricevuto in cambio.

Il Giasone

Luca Stocco ha 26 anni e abita a Torino, ma è originario di Monfalcone, una cittadina di 30.000 abitanti nel Friuli Venezia Giulia. Il padre lavora come operaio aeroportuale, mentre la madre, costretta a lasciare gli studi per difficoltà economiche, ha sempre ripiegato su lavoretti saltuari. A casa non è mai mancato nulla, ma non per caso.

«Penso che il fatto che non ci sia mai mancato nulla sia dovuto anche a questo: mia madre ha sempre voluto evitare che quello che era successo a lei potesse accadere anche a noi, e perciò Non ha mai voluto che sentissimo il peso di dover essere noi a sostenere la famiglia».

L’equilibrio familiare passa anche attraverso un rituale di Benessere Finanziario che Luca ricorda con affetto.

«Lo chiamano “il Giasone” perché nella loro prima casa avevano una specie di pupazzo in cui raccoglievano tutti gli scontrini, che avevano appunto chiamato Giasone. Da allora, “il Giasone” è diventato il loro rituale mensile dedicato ai soldi: controllano tutti i conti bancari, verificano gli scontrini per assicurarsi che tutto torni e pianificano il mese successivo».

Un’eredità che Luca ha fatto sua, pur adattandola alla vita digitale.

«Anch’io faccio più o meno la stessa cosa, anche se in modo molto meno “cartaceo”. Oggi segno tutto su uno spreadsheet dove annoto spese e movimenti. Così ho sempre sotto controllo quanti soldi ho, dove li ho, quanto ho speso durante il mese e se rientro nel budget».

Il sogno di diventare musicista

Luca frequenta il Liceo Scientifico e ha ben chiaro cosa gli piacerebbe fare da grande.

«Per tutta l’adolescenza ero convinto che avrei fatto il batterista nella vita: era la mia passione, la mia missione. Passavo ore e ore in sala prove, suonavo con sei gruppi contemporaneamente, andavo a lezione ogni due settimane a Brescia — 300 km tra andata e ritorno, in treno, svegliandomi alle cinque del mattino — per studiare con il miglior didatta in Italia. Insomma, ero davvero serio su quella strada. Quindi, penso che l’unica cosa per cui ho fatto davvero spendere tanto ai miei siano stati gli strumenti musicali. Ma mia mamma è sempre stata la mia fan numero uno, quindi mi ha sempre supportato. E credo che abbia fatto anche qualche sacrificio personale: piuttosto che dirmi di no per comprarmi i piatti della batteria più belli, preferiva lavorare di più lei e fare qualche rinuncia pur di far quadrare i conti».

Per sostenere il suo sogno di diventare musicista, Luca sceglie un percorso universitario insolito ma strategico: si iscrive alla triennale in Scienze e Tecnologie Multimediali a Pordenone, un corso a metà tra Scienze della Comunicazione e Informatica.

«Mi sembrava un buon modo, innanzitutto, per imparare delle competenze utili al musicista del ventunesimo secolo; perché oggi, per fare il musicista, devi essere anche un content creator. All’epoca facevo cover di batteria su YouTube, quindi cercavo insomma di farmi un nome come musicista anche in quel modo».

Il cambio di rotta

Verso i 18-19 anni, Luca si imbatte in un libro destinato a cambiargli la vita: The Life You Can Save, del filosofo Peter Singer. Nel testo, Singer affronta il tema delle disuguaglianze economiche su scala globale.

«È una cosa che mi ha sempre sorpreso molto, perché per esperienza diretta conosco un po’ le diseguaglianze economiche nel contesto italiano in cui sono cresciuto — che comunque non sono così estreme. Ma quando si fa un passo indietro e si guarda al contesto globale, ci si rende conto di quanto la situazione sia paradossale: siamo tra le persone più ricche del mondo semplicemente perché siamo nati in un paese ad alto reddito. Questo significa che anche una persona del tutto ordinaria, come me, può avere un impatto straordinario. Solo per il fatto di essere nato in Italia, riesco a coprire i miei bisogni e quello che mi avanza, posso condividerlo».

Quel libro letto da ragazzo, poi chiuso e dimenticato, pianta un semino nell’animo di Luca. Quando arriva  il momento di iscriversi alla magistrale, Luca decide di abbandonare il sogno di diventare musicista per trasferirsi a Milano per frequentare in Statale un corso che si colloca a metà strada tra filosofia e scienze politiche, con un forte focus su filosofia politica e morale.

«È un campo di studi che trovo affascinante, perché cerca davvero di mettere in discussione, con spirito critico, le assunzioni fondamentali della nostra società, per capire se abbiamo davvero trovato le risposte giuste alle grandi domande. Leggendo e informandomi sempre di più, mi è rimasto il pensiero fisso del “forse posso fare qualcosa di più significativo” con la mia carriera. E col tempo, quella è diventata una domanda centrale per me».

Fino a quel momento Luca non aveva mai donato nulla e i suoi genitori, in materia di donazioni, avevano avuto solo brutte esperienze.

«Loro avevano donato una somma che, rispetto al loro budget, era molto significativa, anche se non ricordo esattamente a quale guerra fosse legata. Poi però c’era stato un grande scandalo che, se devo essere sincero, non ricordo nei dettagli, ma che ha fatto sì che tutto venisse lasciato lì a marcire. E dopo questa enorme delusione, non hanno più donato nulla».

Donare il 10% del proprio reddito

Mentre studia a Milano, Luca inizia a collaborare con alcune realtà benefiche e a guadagnare i primi soldi. È a quel punto che può mettere in pratica ciò che Singer gli aveva insegnato anni prima. Ma non lo fa da solo.

«Ho scoperto l’esistenza di una comunità di circa 10.000 persone in tutto il mondo che hanno firmato l’impegno del 10% — un impegno pubblico a donare almeno il 10% del proprio reddito, da qui in avanti, a organizzazioni benefiche ritenute le più efficaci nel migliorare la vita degli altri. Questo impegno è stato creato da un filosofo ispirato da Peter Singer, e da lì è nata un’organizzazione chiamata Giving What We Can. Questa realtà supporta proprio queste 10.000 persone impegnate in questo modo, offrendo consigli di donazione basati su rigorose ricerche condotte da valutatori indipendenti di enti di beneficenza, specializzati nel quantificare la costo-efficacia delle organizzazioni per massimizzare l’impatto positivo».

Il 10% è una cifra significativa, specie per uno studente

«L’impegno del 10% per gli studenti viene automaticamente ridotto all’1%, per poi tornare al 10% appena si smette di studiare. Questo mi ha permesso di impegnarmi fin da subito, e poi, quando ho iniziato a lavorare a tempo pieno e il mio budget è aumentato, sono aumentate anche le mie donazioni. Penso che sia stata una mossa furba firmare l’impegno ancora da studente, perché in realtà non ho mai percepito un calo del mio budget: da quando ho uno stipendio fisso, ho sempre donato il 10%, anche se, personalmente, non credo che il 10% faccia davvero una grande differenza».

Il principio della costo-efficacia

Costo-efficacia è il principio con cui si misura quanto impatto riesce a generare un’organizzazione a parità di risorse. In altre parole: con la stessa somma, alcune realtà riescono ad aiutare molte più persone di altre. La differenza può essere enorme ma noi fatichiamo a riconoscere le iniziative benefiche con la migliore costo-efficacia.

«Ci sono anche degli studi che mostrano come la sottostima della differenza di costo-efficacia da parte dei donatori sia uno dei motivi principali per cui la maggior parte di loro non dona in modo particolarmente informato ed efficace. Nel 2020, alcuni psicologi di Harvard e Oxford hanno condotto vari sondaggi, chiedendo a persone non esperte di stimare le differenze di costo-efficacia tra diverse organizzazioni. Secondo i non addetti ai lavori, l’organizzazione più costo-efficace lo è solo 1,5 o 2 volte rispetto alla media, mentre secondo gli esperti la differenza reale è di circa 100 volte».

A classificare scientificamente le organizzazioni in base al criterio di costo-efficacia sono dei valutatori indipendenti come GiveWell, un centro di ricerca americano che ogni anno dedica circa 60.000 ore di analisi per individuare le organizzazioni a più alto impatto.

«Loro stimano che donando alle top charities che consigliano — cioè le organizzazioni più promettenti che hanno individuato — con circa 5.000 dollari in media si riesce a salvare la vita di un bambino. Io, impegnandomi a donare il 10% – ipotizzando di guadagnare circa 2.000 euro al mese nel corso della mia carriera -, se dono 200 euro al mese, sono 2.400 euro all’anno, quindi quei 5.000 dollari li raggiungo in circa due anni. E se lavoro 40 anni, posso salvare 20 vite. Onestamente, pensare che solo facendo questo io possa salvare 20 vite nel corso della mia carriera lo trovo qualcosa di straordinario».

Ed è proprio dalla lista individuata da GiveWell, che Luca ha scelto le charities a cui donare il 10% del suo reddito.

«In particolare, c’è New Incentives, che incentiva i genitori a far vaccinare i propri bambini nel nord della Nigeria, dove i tassi di vaccinazione sono molto bassi e la mortalità infantile è troppo alta. C’è poi Helen Keller International, che distribuisce micronutrienti e integratori di vitamina A, la cui carenza è la principale causa di cecità prevenibile nei bambini. Inoltre, ci sono due organizzazioni che lavorano contro la malaria. Queste sono le principali realtà impegnate nel campo della salute globale e della povertà estrema. Poi, un altro tema a cui tengo molto è il benessere degli animali non umani, in particolare quello degli allevamenti intensivi».

Decifrare i costi nascosti

Ma capire quale organizzazione ha davvero più impatto significa anche mettere in discussione alcune idee molto radicate nel senso comune. Una delle più diffuse riguarda i cosiddetti “costi di struttura” — cioè tutte le spese che non vanno direttamente agli interventi benefici: stipendi, fundraising, gestione, tecnologia, amministrazione.

«Molti donatori danno molta importanza a questo aspetto e preferiscono donare all’organizzazione che spende meno in costi di struttura. Il che, in un certo senso, ha senso: se pensi che non ci siano grandi differenze di costo-efficacia tra diversi interventi, è naturale che l’organizzazione che riesce a destinare più fondi direttamente all’intervento benefico avrà un impatto maggiore. Ma questo non è del tutto vero: le differenze di costo-efficacia sono enormi, quindi i costi di struttura non dicono nulla sull’impatto reale che un’organizzazione può generare. Anzi, alcuni studi mostrano che potrebbe esserci addirittura una correlazione inversa».

«Questo perché, banalmente, se un’organizzazione per fare fundraising e convincere i donatori deve pagare meno i dipendenti o non avere software di alta qualità, la loro efficacia diminuisce, perché non possono investire nei processi necessari. Quindi, una delle cose che sento più spesso è il donatore che mi chiede: “Dei miei soldi, quanti arrivano effettivamente ai bambini?” — ma questa non è la domanda giusta».

Realizzare un sogno

Appena finita l’università, Luca decide di partecipare a un programma di incubazione per progetti ad alto impatto sociale. E dopo quest’esperienza, insieme a un socio, fonda Benefficienza, un’organizzazione non profit che ha la missione di aiutare i donatori in Italia a fare scelte più informate quando donano al fine di massimizzare l’impatto.

«Quindi, di fatto, la passione che ho sviluppato negli ultimi anni, da quando ho firmato l’impegno del 10%, è stata quella di capire come fare del bene con le mie donazioni. Ora cerco di aiutare altre persone a fare la stessa cosa. Benefficenza vuole essere proprio un anello di congiunzione tra i donatori in Italia e tutte queste ricerche a livello globale, che permettono di fare scelte molto più informate e, di conseguenza, potenzialmente centuplicare l’impatto generato senza spendere un euro in più».

Grazie a Benefficienza, Luca è riuscito a far tornare i suoi genitori a donare.

«Penso che fosse proprio quello di cui avevano bisogno, perché a causa di quella delusione avevano sviluppato un profondo senso di sfiducia nei confronti del terzo settore e della beneficenza in generale, una sensazione che credo sia molto comune. In realtà, esistono organizzazioni straordinarie».

Dare per ricevere

In questi anni, Luca ha anche interiorizzato un’idea più matura e personale di altruismo.

«Io penso che, per quanto sia un costo — perché banalmente pago — quello che ricevo in cambio è molto più grande di quello che do. Questo tema è esplorato in un bellissimo libro di Marco Annoni, un bioeticista, che parla del fatto che spesso abbiamo la concezione dell’altruismo come qualcosa che implica necessariamente un sacrificio. Addirittura, se un’azione vantaggiosa per gli altri è anche vantaggiosa per te, viene quasi vista con sospetto. E lui cerca di combattere questa idea, sottolineando che in realtà la maggior parte delle azioni che consideriamo altruiste tendono a essere vantaggiose sia per gli altri che per sé».

E a questo punto, la domanda sorge spontanea: i soldi fanno la felicità?

«I soldi possono fare la felicità, puoi comprare la felicità, però devi farlo in un modo specifico: usarli per comprare qualcosa per qualcun altro. Se li usi per te stesso, è molto meno efficace come modo per acquistare felicità».

Condividi