Ho smesso di lavorare con l’arte: non potevo legarla a un profitto
Quando la creatività viene misurata in termini di profitto, il rischio è che perda la sua essenza e smetta di essere libera e pura. Serena si è trovata proprio dentro a questo conflitto: da un lato il sogno di vivere d’arte, dall’altro la difficoltà di accettare che la propria espressione potesse avere un prezzo. Ed è in questo spazio di tensione che, in questa puntata, ci racconterà come è giunta alla decisione di interrompere, almeno per il momento, la sua carriera artistica.
Tempo di lettura: 11 minuti

«Sognavo di poter fare l’artista a tempo pieno, ma poi ho scoperto che non riuscivo a gestire questo lavoro: passavo mesi e mesi a lavorare e consumavo completamente il budget senza che mi restasse nulla. Non ho mai pensato di mettere qualcosa da parte, perché non mi sembrava giustificato guadagnare con ciò che facevo, perché io lavoravo con le emozioni delle persone. Per avere quella libertà totale, ho capito che non potevo legarla a un profitto personale, e così, a un certo punto, ho scelto di interrompere tutto».
Da un lato il sogno di vivere d’arte, dall’altro la difficoltà di accettare che la propria espressione artistica potesse avere un prezzo. Serena si è trovata dentro questo conflitto e qui ci racconta come è giunta alla decisione di interrompere, almeno per il momento, la sua carriera artistica.
La cultura del risparmio
Serena Osti ha 40 anni e vive a Volano, un piccolo comune di 3.000 abitanti in provincia di Trento. I suoi genitori sono entrambi dipendenti pubblici, mamma insegnante e papà architetto. Ma le sue radici portano a un passato di nobiltà ormai sbiadito.
«Nella nostra famiglia non è rimasto nulla di nobile, a parte il cognome: c’è un “De” davanti al cognome di mia madre. È rimasta anche una tomba molto bella al cimitero, che si distingue dalle altre: un Cristo sorretto da due leoni su un pilastro, piuttosto pomposa. E poi i ricordi del nonno di mia madre, che si vestiva sempre di bianco, non lavorava, e di sua moglie, una donna molto umile ma che non sapeva fare nulla, che amava spendere i soldi. Non è rimasto altro».
Quella ricchezza venne dilapidata prima ancora che la mamma di Serena venisse al mondo. Da parte del padre, invece, la storia familiare racconta di una emigrazione in Argentina in cerca di fortuna. E di un ritorno anticipato per la nostalgia, senza un soldo, e con una stabilità tutta da costruire. E così la prudenza e il risparmio diventano una sorta di copione familiare a cui i genitori di Serena si attengono scrupolosamente.
«Io ho sempre vissuto sempre con l’idea del risparmio e col tempo mi sono resa conto che, in realtà, noi stavamo anche bene, solo che ci privavamo di più cose rispetto agli altri».
«Alle medie, ad esempio, siamo stati gli ultimi della classe ad avere un lettore VHS per le videocassette. Non era una grande sofferenza per me, ma notavo che famiglie con meno possibilità lo avevano già prima di noi. Per lo sport, la cultura e l’educazione, però, i soldi non mancavano mai. Quindi si trattava, in sostanza, di rinunciare al superfluo: si risparmiava tutto l’anno su ogni cosa, ma c’era un’unica occasione in cui si poteva spendere».
E quella cosa per cui si può spendere sono i viaggi, di cui Serena ha un gran bel ricordo.
«Passavamo un mese d’estate al mare in Abruzzo, ed era fantastico: con un milione di lire affittavi un appartamento per tutto il periodo. Poi, a fine agosto, andavamo a trovare mia zia in Svizzera tedesca e trascorrevamo dieci giorni in montagna, tipo Heidi, a piedi scalzi, camminando tra le mucche e i prati.»
I primi soldi
In questo contesto di gestione familiare molto attenta, a Serena non viene data una paghetta e non le viene insegnato a gestire il denaro. Cresce così in una realtà protetta, dove la sicurezza economica è garantita, ma l’autonomia finanziaria resta un territorio inesplorato.
«Fino ai diciannove anni, praticamente fino alla maturità, non avevo mai avuto denaro tra le mani. Il mio desiderio più grande era andare a lavorare per avere finalmente quei benedetti soldi».
Finito il liceo, infatti, Serena inizia a lavorare nei rifugi di montagna. E con quei primi soldi che si ritrova tra le mani, si accorge di quanto il copione familiare dell’accortezza sia marchiato a fuoco dentro di lei: ogni euro che Serena guadagna viene speso in maniera ponderata.
«La prima cosa che mi sono comprata è stato un computer portatile Mac. Poi, con una parte dei soldi, ho preso dei vestiti di qualità che ho usato per anni: ricordo ancora una maglia di cashmere viola, l’ho indossata talmente tanto che non si poteva più mettere, ma non volevo separarmene. Infine, ho comprato un biglietto di andata e ritorno per New York per andare a trovare mia zia: dovevo migliorare l’inglese e le ho chiesto se poteva ospitarmi, perché avevo i soldi solo per il volo».
Quella rigidità nei confronti del denaro influenza profondamente le scelte di Serena, portandola a privilegiare sempre il ritorno economico rispetto alle proprie inclinazioni personali.
«Per esempio, io ho studiato al liceo linguistico, ma in realtà avrei voluto frequentare l’Istituto d’Arte, che però era considerato off limits se volevi guadagnarti da vivere, secondo la percezione comune. Anche la scelta dell’università è stata un compromesso: ho optato per Design Industriale, perché non era l’Accademia di Belle Arti, ma aveva comunque una componente economica legata al lavoro, quindi un percorso che poteva essere visto come una professione».
Il cambio di percezione
Serena si trasferisce a Bolzano per studiare all’università. I suoi genitori le garantiscono vitto e alloggio, lei fa piccoli lavoretti per guadagnare qualcosa in autonomia. In quegli anni capisce che la percezione che aveva della sua realtà economica non corrispondeva del tutto alla realtà.
«All’università ho iniziato a rivedere un po’ il mio status: osservavo chi poteva permettersi certe cose e chi no, e come questo influisse sullo stile di vita, sulla visione del futuro e sulle possibilità che ciascuno aveva. E quindi, lì, mi sono resa conto che in realtà provengo da un contesto borghese, anche se in famiglia ci siamo sempre raccontati di essere migranti operai».
Terminata l’università, la laurea apre una nuova fase di smarrimento. È il 2009, un anno dopo il crollo dei mercati finanziari e il mondo del lavoro è paralizzato. In questo clima di incertezza, Serena torna nei rifugi di montagna, mette da parte qualche risparmio e decide di concedersi la possibilità di inseguire ciò che ha sempre sentito come il suo vero sogno: diventare un’artista.
«Ho sfidato l’idea che non potessi lavorare nel mondo dell’arte, e quella fiducia l’ho trovata attraverso la crisi. Ero così giù di morale, a forza di leggere notizie negative, che ho pensato: “Beh, il mondo domani collassa, allora almeno, se muoio, mi tolgo questo sfizio”».
Puntare tutto su un sogno
Grazie a una borsa di studio Erasmus Plus, Serena si trasferisce a Brighton, dove inizia un tirocinio come assistente ad alcuni artisti. Il compenso è modesto: 600 pound al mese, di cui 250 vanno subito per l’affitto della stanza. Lavorando per la prima volta in ambito artistico, Serena si rende conto, con sorpresa, che tra il mondo dell’arte e il profitto esiste un legame molto più stretto di quanto avesse immaginato fino a quel momento.
«Loro avevano assunto persone per gestire l’amministrazione e trovare i bandi, e avevano artisti associati che chiamavano in base alle necessità, pagandoli per portare i loro lavori in giro per il mondo ai vari festival. Erano persone che sapevano gestire i soldi e con quei soldi creavano opportunità. Io, infatti, sono stata pagata sia grazie alla borsa di studio Erasmus, sia alla loro borsa di studio. In sostanza, ho fatto un’esperienza in cui l’arte aveva un valore reale, anche economico».
Dopo un anno di tirocinio, a Serena piacerebbe restare in Inghilterra per proseguire gli studi, ma il 2010 porta con sé un cambio di governo e molta incertezza politica. Le tasse universitarie raddoppiano e lei decide di rientrare in Italia. A Bolzano, inizia a lavorare part-time come assistente di un artista di calibro internazionale. E intanto si dedica anche a progetti personali di arte pubblica. Finalmente, in quella fase, fa pace con il denaro e non lo vede più come qualcosa di negativo, ma come un’opportunità.
«Lì è nata anche un’amicizia importante con un mio amico proveniente da una famiglia abbastanza abbiente. Ricordo che mi ha insegnato a spendere i soldi, perché io mi sentivo sempre in colpa. Così, a un certo punto mi ha detto: “Tu lavori un sacco, e lavori bene; magari non chiedi quanto dovresti, ma devi anche poterti concedere delle cose. Vieni con me, ti compri una bella camicia, ti accompagno e scegli qualcosa che abbia valore”».
Non riconoscere il proprio valore
Dopo sei anni passati a lavorare nel mondo dell’arte, Serena si rende conto che pur essendo capace di valorizzare il lavoro degli altri, fatica a veder riconosciuto il valore economico alle proprie creazioni.
«Ho sempre sognato di poter fare l’artista a tempo pieno, ma ho scelto di dedicarmi a cose estremamente difficili da vendere: la performance art, che è immateriale, difficile da documentare e che spesso si realizza una sola volta e richiede mesi di lavoro. Crea un enorme valore per le persone, ma a livello economico è quasi impossibile trasformarlo in qualcosa da possedere. E alla fine mi sono resa conto che, se non lo facevo in quel modo, non mi interessava».
In realtà, anche questo tipo di arte ha un mercato, ma esso è profondamente legato alla capacità negoziale dell’artista.
«Ovviamente, si tratta di una contrattazione. Se l’istituzione stabilisce un valore e l’artista non lo negozia, e se tutti gli artisti non negoziano quel valore, allora quel valore non verrà mai riconosciuto».
Per Serena questa contrattazione è particolarmente difficile. Fatica ad attribuire un prezzo a un lavoro così intimamente emotivo e legato a una disciplina così libera e pura.
«Lavoravo per mesi e mesi, per poi consumare completamente il budget: non riuscivo mai a mettere nulla da parte. Non ci pensavo nemmeno, perché non riuscivo a giustificare il fatto di guadagnare con ciò che facevo, dato che lavoravo con le emozioni delle persone. E per avere quella libertà totale, ho capito che non potevo legarla a un profitto personale. Ho fatto la mia ultima performance dopo quattro mesi di ricerca, grazie a un bando pubblico. Ho lavorato su temi come vita, morte e giovinezza, con persone malate terminali e parenti di defunti, in un contesto emotivamente molto intenso. Le persone erano molto contente del mio lavoro e penso che sia una delle cose migliori che abbia fatto, ma io non ero soddisfatta: ero completamente prosciugata emotivamente. A quel punto mi sono detta che ci sono persone che possono farcela e persone che non possono».
Slegare l’arte dal profitto
Così, Serena sceglie di interrompere il lavoro di artista e anche i suoi progetti di grafica. E nel tempo libero decide di esplorare forme di espressione libere, come l’improvvisazione vocale e altre discipline artistiche, togliendo lo scopo economico e concentrandosi sul piacere della creazione.
«Barattare il tempo della propria vita per produrre qualcosa per un sistema economico che ti dà un riconoscimento… se però questo finisce per danneggiare la tua vita, per me il prezzo non ha senso. Credo che la creatività debba nascere da un processo di benessere, non di malessere».
È così che Serena approda al mondo del marketing, dove trova un impiego solido e continuativo. Oggi lavora a tempo pieno e il suo stipendio è ben diverso da quando faceva arte. E anche il suo rapporto con il denaro è cambiato.
«Mi sono ritrovata a passare da un ipercontrollo a zero controllo: ho scoperto il tempo libero, il weekend, la vita, e ho iniziato a vergognarmi. Poi, confrontandomi con delle money coach, mi hanno detto che in realtà non ero messa così male: ero stata bravissima a risparmiare quando non avevo soldi, e questo non è un comportamento comune. E poi che, comunque, quando mi sono lasciata andare, non è che abbia dilapidato una fortuna. Per me, però, l’idea di lavorare e rischiare di spendere lo stipendio di un mese resta impensabile, perché la storia della mia famiglia insegna che le cose possono sempre andare male, o che c’è sempre una ragione per mettere soldi da parte per qualcosa di migliore».
Nel suo cammino di riscrittura del rapporto con il denaro, Serena ha incontrato compagni di viaggio con cui condividere dubbi e riflessioni. Insieme hanno trasformato un percorso che poteva sembrare individuale in un’esperienza profondamente collettiva. Sì, stiamo parlando della membership di Rame, che per lei ha acquisito un significato unico.
«Secondo me è uno dei pochissimi percorsi che ho fatto in grado di toccare il cuore emotivo di un problema e sviscerarlo grazie alla sua struttura. Quello che mi ha affascinato e rappresentato una svolta è stato il metodo, il metodo Rame, che potrebbe essere applicato a moltissime altre tematiche. È stato grazie alla forza del gruppo, alla qualità del gruppo Telegram, che ho trovato la motivazione per fare gli esercizi, anche quelli più difficili, e soprattutto per farmi delle domande e sentirmi parte dell’umanità».
A questo punto, non posso che chiederle se tornerà mai, un giorno, a fare arte.
«A volte penso che in questo momento probabilmente non ho bisogno di dire niente. Ma credo che, se il futuro continuerà ad andare come sta andando, allora avrà più senso che io ritorni a fare qualcosa. Non per una questione di sistema economico, ma per una questione di sistema sociale. In quel contesto potrò riutilizzare tutto ciò che ho imparato».