Io, orfana di genitori vivi, non riesco a spendere neanche un euro per me

Martina ha 31 anni, è cresciuta in provincia di Milano e da quattro anni vive in Germania. Proviene da una famiglia benestante. I soldi c’erano e lei lo sapeva. Ma mai per soddisfare i suoi bisogni. Martina cresce in un contesto di privazione economica che nasconde una privazione ancora più grave, quella affettiva. Fin da quando è molto giovane, lavora per pagarsi i bisogni di prima necessità. Quando il padre finisce in carcere, il peso psicologico diventa talmente grande che non riesce a concentrarsi sugli studi, e decide di lasciare la facoltà. «Non essere riuscita a laurearmi ha rappresentato per me un grosso dolore perché tutti gli altri sono andati avanti, mentre io son rimasta indietro». Per tagliare il cordone ombelicale con la famiglia lascia l’Italia e riparte da zero, accettando qualsiasi lavoro pur di sopravvivere; ma le sue esperienze le hanno provocato un trauma nella reazione con i soldi, a tal punto che non riesce a spendere neanche un euro per se stessa. «Io mi sento orfana di genitori vivi perché non ho mai avuto supporto dalla mia famiglia. So che, il giorno in cui mi succede qualcosa, devo contare solo sulle mie forze. E per questo, non posso permettermi di esagerare». Ora, però, vuole andare avanti. Si è rimessa a studiare e sta provando a credere nuovamente in un’idea di famiglia.

Ascolta il podcast della puntata:

«Se devo comprare un integratore per il mio cavallo o lo sciroppo per la tosse, non ci metto né uno né due. Lo ordino subito. Se devo spendere dei soldi per i bisogni di qualcun altro, io non ho nessun problema a spenderli. Per me stessa invece faccio molta più fatica. Ho il desiderio magari di comprarmi delle cose, fare dei weekend, eccetera. Ma ho paura di spenderli, perché penso che, se mi succede qualcosa, devo avere un gruzzoletto da parte. E non che non ce l’abbia, perché nel tempo ho sempre cercato di mettere qualcosina da parte, però faccio veramente fatica a spendere dei soldi per me stessa». 

Martina Morando ha 31 anni, è nata in provincia di Milano ma vive in Germania, in un piccolo paese vicino Stoccarda dove ci sono 100 uomini e 130 cavalli. Oggi ripercorrerà con noi com’è nata questa paura di spendere per le sue necessità e come sta provando a liberarsene. 

I tuoi bisogni valgono meno dei miei

I genitori di Martina si separano quando lei ha 7 anni. Sua madre è incinta di un fratellino e suo padre inizia la relazione con un’altra donna. La questione soldi è piuttosto strana, dice.

«Quando eravamo piccoli, il nostro rapporto con i soldi era abbastanza strano, nel senso che sapevamo che non eravamo poveri. Provengo da una famiglia normale, i miei genitori erano una classica coppia sposata degli anni Ottanta. Comprarono la loro villetta a schiera, nuova di pacca in paese e mia mamma non lavorava perché poteva permettersi di fare la casalinga mentre mio papà lavorava full time. Chiaramente stavamo bene, non avevamo problemi di soldi».

Il fatto è che i soldi venivano utilizzati per litigare; nel senso che ogni volta che io chiedevo qualcosa a mia mamma, la sua risposta era sempre “io non ho soldi li devi chiedere a tuo papà”, quindi tanti dei miei bisogni non venivano soddisfatti. Però, i bisogni dei miei genitori sì.

«Ad esempio, mia mamma diceva sempre “Io non ho soldi, non soldi”, però so che aveva un abbonamento in palestra, che faceva delle vacanze, che ci ha tenuto nascoste. Era sempre vestita bene, aveva l’auto di sua proprietà, però io dovevo mettere i vestiti usati dalle sue amiche. È sempre stato… “I tuoi bisogni valgono meno dei miei”».

Il padre di Martina, invece, non si tirava indietro quando si trattava di dare loro dei soldi.

«Gli dava fastidio, però, che dovesse spendere solo lui, mentre lei non contribuiva per niente. E in più, man mano che crescevamo, lui si è sempre di più allontanato e il fatto che tu dovessi sempre chiederli i soldi, ti faceva sentire come se fosse una cosa non necessaria».

Martina e suo fratello sono due ragazzi trascurati economicamente. Ma soprattutto emotivamente. Quando la madre inizia a soffrire di disturbi psichiatrici, Martina è adolescente e decide di andare a vivere insieme al padre. Ma anche lui, di fatto non c’è. 

«Lui è sempre stato un uomo che si è dato da fare nel mondo del lavoro. Si è sempre sacrificato, anzi posso sicuramente dire che ha sempre messo il suo lavoro davanti alla sua famiglia. Quando ero adolescente, e ho deciso di vivere con lui, ho sentito tantissimo la sua mancanza perché lui era sempre al lavoro. Poi era un periodo in cui aveva aperto la sua azienda, dormiva spesso lì, lavorava tantissimo e mi ha messo da parte. Mi rendo conto adesso della sofferenza che mi porto dietro di quel periodo, ma io l’ho sempre giustificato molto perché pensavo che il lavoro fosse la cosa più importante».

Da sua mamma, invece, Martina ha ricevuto un insegnamento di tutt’altro tipo, ma che non ha nessuna intenzione di seguire.

Il suo insegnamento più grande era: “Tu, Martina, devi crescere e trovare un uomo con i soldi”. Perché per lei il top nella vita era trovarsi un uomo con un buon lavoro che mantenesse la famiglia in modo che la madre potesse stare in casa a prendersi cura dei figli senza dover andare a lavorare. Quindi, da parte mia ho avuto una figura femminile di questo tipo. 

Lo studio come forma di realizzazione

Martina invece ha tutt’altro obiettivo. Benché i suoi genitori non ne capiscano il perché, lei vuole laurearsi.

«La mia famiglia non comprende l’importanza dell’università e dello studio, un po’ perché provengono da famiglie operaie, un po’ perché hanno avuto un’altra esperienza di vita, nel senso che finita la scuola hanno subito trovato un buon lavoro fisso e con un buono stipendio e si sono potuti permettere nel giro di poco tempo di essere molto indipendenti, di avere una macchina, di comprarsi una casa; mentre al giorno d’oggi non avere un titolo di studio ti preclude queste cose».

Martina inizia a lavorare quasi subito. All’inizio lo fa per permettersi di uscire con le amiche e togliersi gli sfizi di una giovane adolescente. Presto dovrà farlo per pagarsi l’università, Scienze e tecnologie agrarie. Suo padre, con cui a quel tempo viveva, finisce in carcere per un anno.

«In quella situazione, io mi sono ritrovata completamente sola, mentre prima lui comunque mi pagava l’affitto di casa. Dopo, questa responsabilità mi si è accollata tutta addosso. Ho dovuto lavorare sicuramente molto di più per poter sopravvivere, perché comunque mia mamma neanche in quel frangente ha mai pensato di aiutarmi economicamente e quindi ho incominciato a lavorare di più e ad accantonare per l’università».

I soldi che gudagnavo mi bastavano per pagarmi il treno, i vestiti. Non avevo modo di risparmiare, ovviamente, anche perché dovevo utilizzare questi soldi per beni di prima necessità. Quando i miei compagni dell’università facevano le ripetizioni o qualche lavoretto, i loro soldi li spendevano per andare in vacanza l’estate o per fare qualche weekend in giro. Io, invece, quei soldi li dovevo spendere per sopravvivere.

Quando il padre esce dal carcere, il loro rapporto si deteriora. Martina va via di casa e lascia l’università. 

«A me è pesato tanto il fatto di non essere riuscita a laurearmi perché sono stata bloccata proprio l’ultimo anno prima della laurea, l’anno in cui mio padre è andato in carcere. Lo capisco adesso perché all’epoca non riuscivo a passare gli esami e mi colpevolizzato per questo. Però ora so che veramente non avevo la testa e l’emotività giusta per poter affrontare gli studi. E quello per me è un grosso dolore perché tutti gli altri sono andati avanti, adesso magari lavorano in quello per cui hanno studiato, hanno comprato una casa, si sono anche sposati. Io invece ho iniziato facendo la promoter e a 27 anni, quando mi sono trasferita in Germania, ho comunque dovuto accettare qualsiasi lavoro per sopravvivere. Facevo la donna delle pulizie. Adesso, ovviamente, dopo quattro anni non è più così. Però non ho avuto quel processo standard di crescita che avrei voluto avere».

Soprattutto perché mi sono resa conto che gli sbagli degli altri hanno condizionato la mia vita fin da quando ero piccola. E adesso sono stufa che debbano condizionarmi anche nel futuro.

Martina per tagliare questo cordone ombelicale con il suo passato si è messa in testa di completare il suo percorso di studi per dare una svolta alla sua vita. E  così di giorno si occupa di cavalli in un maneggio, guadagnando 1200 euro al mese, e di pomeriggio studia.

«Per me voglio un lavoro che veramente mi identifichi».

D’altra parte, Martina ha misurato sulla sua pelle quanto sia fallace la narrazione del successo a cui siamo sottoposti, che illumina solo i meriti personali tralasciando completamente le condizioni di partenza.

«Ci viene insegnato che se vuoi, lo puoi fare; e purtroppo io a trentun’anni penso che non sia così, perché non tutti hanno le stesse possibilità e gli stessi privilegi per poter arrivare dove vogliono. Quindi può essere che quando qualcuno ha successo e ha avuto una situazione difficile, ci si congratula, ma quante persone ci hanno provato e magari non ce l’hanno fatta? E io mi sento parte di queste persone che ci hanno provato e non ce l’hanno fatta perché non avevano gli stessi privilegi degli altri».

La paura di avere dei desideri

Le esperienze di vita che ha fatto fin qui, le hanno provocato non solo un gap nel percorso formativo, ma anche una grossa ferita nella relazione con i soldi...

«Io rispetto ai miei coetanei ho una grossa differenza: mi sento orfana di genitori vivi perché non ho mai avuto supporto da loro e sono consapevole che non ce lo avrò mai. Di conseguenza, penso sia più difficile per me e mio fratello vivere sapendo di non avere una via d’uscita. Io so che devo contare solo sulle mie forze, perché il giorno in cui mi succede qualcosa, devo aver calcolato bene ogni cosa, in modo da potercela fare da sola. Non posso permettermi di sbagliare troppo, di esagerare troppo, perché non ho la famiglia alle spalle che può coprire i miei errori».

D’altra parte, in Germania, Martina ha incontrato un pezzo di mondo di cui non sapeva l’esistenza e che l’ha aiutata a far pace con la rabbia e la frustrazione che prova. 

«Ho conosciuto persone da tutto il mondo che non sono all’estero perché hanno finito il dottorato o perché stanno facendo un’esperienza. Molte sono persone che arrivano dal sud Italia da condizioni di lavoro precario e sottopagato e vogliono avere una vita migliore. Qui ho conosciuto situazioni di povertà vera».

Oggi Martina, ha fatto un’assicurazione pensionistica e un piano di accumulo da 40 euro al mese. Ma soprattutto, sta provando a credere nuovamente in un’idea di famiglia.

«Io posso sicuramente dire di avere la mia famiglia perché ormai vivo con Claudio da sei anni e per me è lui la mia famiglia. Io so che posso contare su Claudio se qualcosa andasse storto e so che a livello sociale ci sono delle persone che mi vogliono bene, che sanno come sono fatta e che in caso avessi bisogno di aiuto ci sarebbero. Sanno anche che faccio fatica a chiedere aiuto, quindi me lo darebbero spontaneamente».

L’indipendenza però resta un punto fermo, il pilastro attorno a cui Martina ha costruito la sua identità.

Ho bisogno di essere indipendente perché penso che il fatto di essere in una relazione con un uomo e non avere la propria indipendenza economica ti metta in una posizione di dipendenza sia economica che emotiva. Io la vedo in questa prospettiva, perché dal momento in cui tu mi mantieni e dobbiamo fare delle scelte economiche, devo fare i conti col fatto che la fatica per guadagnare quei soldi la fai tu e che quindi tu hai un potere maggiore decisionale su come spendere i soldi.

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