L’app
di Rame

Investimenti in armi: perché non convengono neanche sul piano economico-finanziario

Investire in armi è meno conveniente di quanto sembri, oltre che eticamente controverso. Con Futura d’Aprile analizziamo il reale peso dell’industria bellica, le zone grigie dell’export e il ruolo di banche e fondi nella finanza “armata”. Con Aldo Bonati di Etica Sgr scopriamo perché anche fondi Esg possono investire in difesa e come scegliere investimenti davvero responsabili.

Tempo di lettura: 8 minuti

investire in armi
Foto di Jonathan Kemper

Questo articolo è realizzato in collaborazione con Etica Sgr, una società di gestione del risparmio che propone solo fondi comuni di investimento sostenibili e responsabili.

Ascolta il podcast della puntata:

«Il settore della difesa è importante a livello economico: investe, fa ricerca e ha ricadute positive sul civile». È questa l’idea che viene ripetuta spesso, quando si parla di industria bellica. Ma la giornalista Futura d’Aprile, che da anni studia il mondo delle armi, dimostra che le cose non stanno affatto così: né dal punto di vista etico, né da quello economico.

Proviamo dunque a capire con il suo aiuto che cosa succede quando i nostri soldi, attraverso banche e prodotti finanziari, finiscono nell’economia della guerra. E come possiamo evitarlo.

Quanto pesa davvero l’industria delle armi sull’economia italiana

In Italia esistono circa 4.000 aziende che producono materiale per la difesa. Due sono i grandi nomi, entrambi a partecipazione statale, Leonardo e Fincantieri, mentre tutto il resto è fatto di piccole e medie imprese, in perfetto stile “tessuto produttivo italiano”. Eppure, se andiamo a vedere i numeri, l’impatto sull’economia complessiva è molto più limitato di quanto il dibattito pubblico lasci intendere.

«I dati ufficiali di Confindustria e dell’industria della difesa ci dicono che il comparto difesa e sicurezza pesa soltanto per lo 0,5% del Pil. Per fare un paragone, il settore dell’automotive pesa circa il 5,2%», spiega Futura d’Aprile.

Non solo: i dati del 2019 indicavano un peso dello 0,9% del Pil. Oggi, tenendo conto dell’inflazione e di altri fattori, questo peso sarebbe persino inferiore. Insomma, anche negli anni segnati dalla guerra in Ucraina e dall’aumento delle tensioni geopolitiche, l’industria bellica resta un settore: piccolo rispetto ad altri comparti; molto volatile, perché dipende da ordini esteri, rapporti tra Stati, costo di energia e materie prime; poco affidabile come pilastro di stabilità economica nel lungo periodo.

Ecco il primo mito che si incrina: l’idea che la difesa sia un volano imprescindibile per la crescita economica.

Difesa o settori civili: dove conviene investire davvero?

Un argomento ricorrente a favore degli investimenti in difesa è che “creano occupazione” e “spingono la tecnologia”, con ricadute positive sul mondo civile. Futura racconta di aver curato un ebook per la campagna Sbilanciamoci sulla militarizzazione dell’Unione Europea:

«Uno degli economisti che hanno contribuito al volume mostra che un investimento fatto nel settore della difesa ha sì un ritorno economico, ma lo stesso investimento in settori civili, come istruzione, sanità, adattamento ai cambiamenti climatici, genera più posti di lavoro, un ritorno economico di lungo periodo e benefici maggiori per l’economia nel suo complesso».

Non è quindi un tema solo etico, ma di allocazione delle risorse: quando si sceglie di puntare sulla difesa, si rinuncia a investimenti alternativi che potrebbero sostenere meglio l’economia e la società.

Export di armi italiane: cosa prevede la legge 185/90

Gran parte della produzione bellica italiana non resta nel Paese, ma viene esportata. L’export di armi italiane è regolato dalla legge 185/1990, frutto di una forte pressione della società civile. Prima di quella legge, l’Italia poteva esportare armi senza dover rendere conto di chi fossero gli acquirenti.

La 185/90 prevede che:

  • l’Italia non possa esportare verso Paesi in guerra o coinvolti in conflitti;
  • non possa esportare verso Paesi che non rispettano i diritti umani;
  • non possa vendere a Stati che destinano una parte eccessiva del Pil alla difesa.

Per applicare questi limiti, però, serve un organismo terzo che certifichi le condizioni. Ed è qui che si aprono le zone grigie. I report che il governo presenta ogni anno al Parlamento mostrano che l’Italia esporta principalmente verso Paesi del Golfo, Medio Oriente e Nord Africa (Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Kuwait, Marocco, Qatar). Nel 2024, al primo posto c’era l’Indonesia.

«Molti di questi Paesi non hanno livelli di democrazia paragonabili a quelli europei», sottolinea Futura. «Questo significa che le armi italiane possono essere usate in contesti di conflitto o di repressione interna, mettendo in cattiva luce il ruolo dell’Italia».

Il caso Israele e la continuità degli scambi dopo il 7 ottobre

Tra i partner dell’Italia nel settore della difesa c’è anche Israele. Il rapporto è duplice:

  • L’Italia importa da Israele (aerei-spia, fucili, munizionamento, componenti digitali e di cybersicurezza);
  • L’Italia esporta anche (cannoni navali, jet addestratori usati per esercitarsi ai bombardamenti).

Dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, il governo italiano ha dichiarato di aver bloccato nuove licenze. Ma le licenze già concesse hanno continuato a produrre effetti. In più, esiste il tema del dual use: prodotti con uso civile e militare che aggirano più facilmente i limiti della 185/90. «Queste azioni si collegano sia alla legge 185/90, sia al diritto all’obiezione di coscienza», spiega Futura. La legge prevede che in Italia non possa transitare materiale d’armamento destinato a Paesi in guerra o che violano i diritti umani. I portuali hanno usato questa base per rifiutarsi di imbarcare armi, attirando l’attenzione sul ruolo dei porti.

Investire in difesa spinge la ricerca: mito o realtà?

Il caso di Internet viene citato spesso come esempio di innovazione nata in ambito militare. «In realtà, Internet nasce in gran parte in ambito accademico», precisa Futura. E gli investimenti in ricerca nel settore della difesa sono relativamente bassi: si spende molto di più per “fare armi perché servono” che per ricerca pura.

Come i capitali entrano nell’industria bellica

Due i canali principali:

  • Investimenti pubblici: via legge di bilancio. Dentro il bilancio della difesa, una voce importante è il procurement. Secondo Milex, per il 2026 sono previsti 13,1 miliardi per l’acquisto di nuove armi (+1,4% rispetto al 2025).
  • Investimenti privati: le aziende della difesa sono quotate in borsa. Leonardo è un esempio di come funzionano: durante guerra in Ucraina e l’offensiva su Gaza le azioni erano in crescita, appena si parlò di pace le azioni calarono, e quando svanirono di nuovo le ipotesi di pace ci fu un nuovo rialzo.

«Ciò dimostra quanto il benessere finanziario di queste aziende sia legato all’esistenza di conflitti aperti», dice Futura.

Fondi pensione, fondi ESG e finanza “armata”

Il tema dei fondi pensione è delicato. Futura cita il caso di un fondo danese aperto agli investimenti in difesa, nonostante i criteri Esg. Il problema:

  • Pressione sui rendimenti, con le azioni della difesa in rialzo;
  • Scarsa trasparenza per gli investitori.

«È un sistema di scatole cinesi», dice Futura.

Entra in scena Aldo Bonati di Etica Sgr. Gli chiediamo: se investo in un fondo sostenibile, posso essere sicura che i miei soldi non finiscano nell’industria bellica? La risposta è: no, non automaticamente.

Classificazione SFDR dei fondi europei:

  • Articolo 6: fondi tradizionali;
  • Articolo 8: fondi che promuovono fattori Esg;
  • Articolo 9: fondi con obiettivo esplicito di sostenibilità;

Eppure il 43% dei fondi articolo 8 e 9 investe anche in aerospace&defense mentre i fondi non Esg arrivano al 56%. «Chi compra un fondo sostenibile rischia comunque di finanziare società armate», dice Bonati. Anche le armi nucleari, non sempre considerate “controverse”.

Come capire se il tuo fondo investe in armi

Strumenti utili:

  • Prospetto informativo;
  • Fact sheet;
  • Rendiconto annuale e relazione semestrale (con la lista completa delle aziende).

Bonati indica alcuni nomi da riconoscere: Rheinmetall, Thales, Leonardo, Saab, BAE Systems, Airbus Group, Safran. Se compaiono, significa presenza nel settore armamenti.

Armi autonome e “killer robots”

Le armi autonome sono sistemi con gradi variabili di autonomia:

  • Man in the loop;
  • Man on the loop;
  • Man out of the loop (i veri e propri killer robots).

I droni sono i sistemi più vicini alla logica autonoma. La guerra in Ucraina è un laboratorio reale per droni terrestri, marini e aerei.

La campagna Stop Killer Robots ed Etica Sgr

Stop Killer Robots (270 ONG in 70 Paesi) ed Etica Sgr hanno scritto un investor statement per chiedere all’Onu:

  • Una definizione chiara di arma autonoma;
  • Il divieto dei sistemi senza controllo umano significativo.

Serve per fissare limiti legali e dare strumenti agli investitori per escludere queste tecnologie.

Tre azioni concrete per non finanziare, senza saperlo, l’industria delle armi

  • Informarsi: con fonti tecniche e divulgative. Sul sito di Etica Sgr c’è materiale sulle armi autonome e sullo statement agli investitori.
  • Attivarsi: chiedere al consulente o alla banca: «Il fondo che mi hai proposto investe in società che producono armi?», serve per esercitare cittadinanza attiva e aumentare la domanda di finanza non armata.
  • Condividere: diffondere consapevolezza su fondi sostenibili che possono investire in armi, campagne contro i killer robots, il diritto di sapere dove vanno i nostri risparmi.

Investire non è solo una questione di numeri

L’idea che investire in armi sia conveniente è più fragile di quanto sembri: né economia, né finanza, né società ne traggono vantaggio certo. E soprattutto, investire non è solo una questione di numeri. È una scelta sul nostro modo di abitare il presente e immaginare il futuro.

Condividi