Il prezzo che pago per aver scelto di lavorare nella cultura

Michela, 57 anni, è un’attrice e il suo lavoro è raccontare storie. Nonostante la sua forte vocazione, ha sempre dovuto affrontare la precarietà finanziaria del settore, facendo fatica a far riconoscere il valore economico del suo lavoro. Una difficoltà che appartiene a molti professionisti della cultura, che spesso ricevono compensi ben al di sotto di quanto necessario per una vita dignitosa. E sentono che questo squilibrio nasce dall’idea che il loro impegno sia mosso da una vocazione avulsa dal diritto a un giusto ritorno economico. 

Tempo di lettura: 9 minuti

Michela Cesaretti

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«Nonostante una persona che lavora in questo settore dovrebbe oramai essere abituata a una grande irregolarità nelle entrate, ci sono dei momenti in cui il livello del conto scende a un punto tale che sembra davvero difficile andare avanti. A quel punto diventa una questione di identità e facciamo un po’ fatica a riconoscerci e a farci riconoscere. Ci sono dei momenti un po’ bui per questo».

Michela è un’attrice. Il suo lavoro è raccontare storie. E la difficoltà di cui ci sta parlando appartiene a molti professionisti della cultura, che spesso ricevono compensi ben al di sotto di quanto necessario per una vita dignitosa. E sentono che questo squilibrio nasce dall’idea che il loro impegno sia mosso da una vocazione avulsa dal diritto a un giusto ritorno economico. 

La cultura del buffo circolare

Michela Cesaretti ha 57 anni e vive a Roma. È cresciuta in una famiglia che aveva pochi soldi, ma in un contesto in cui i soldi erano poco importanti. Perché non ce li aveva nessuno. E perché non si aveva mai una reale percezione di carenza.

«La mia era una famiglia che doveva stare attenta alle spese. Però questa condizione non è mai stata vissuta in maniera tragica, anzi, era una cosa abbastanza normale. Mi ricordo del buffo circolare che si faceva a volte tra amici».

«Il buffo circolare è che si chiede in prestito ad amici una piccola somma; per ridargliela, si chiedono degli altri soldi ad altri amici, e si va avanti così. Poi, si ricambiava il favore a seconda del momento di bisogno delle persone che si aveva intorno».

Erano tempi in cui, quando finivano i soldi, si andava a cena a casa degli amici. E anche agli estranei si chiedeva aiuto senza troppa vergogna. 

«I miei genitori mi raccontavano che una volta eravamo andati a fare una gitarella di qualche giorno in montagna e tornando si erano comprati un piccolo souvenir. Solo che non si erano resi conto che avevano finiti i soldi. Così, si sono fermati in una stazione dei carabinieri e hanno chiesto qualche migliaio di lire in prestito, per poi restituirglieli con una lettera di ringraziamento. Erano questi tempi qua».

Di quegli anni, Michela ha un ricordo bellissimo.

«Abbiamo sempre fatto delle vacanze molto essenziali: andavano spesso a fare campeggio libero in Grecia, Corsica, Sardegna… Sempre viaggi molto avventurosi e piacevoli in cui ci si godeva la vita nonostante quel poco che si aveva. Da piccola ho fatto tante cose che non sono riuscita a far fare ai miei figli».

Ciò che c’era di diverso, allora, era la percezione di vivere una condizione normale, comune a molti.

«Lo è molto meno oggi: io alla mia età devo stare molto attenta a quello che spende e mi sento molto diversa dalle persone che mi circondano».

I genitori di Michela erano entrambi insegnanti ed erano cresciuti in un mondo in cui i figli facevano il lavoro dei padri. Con Michela, questo meccanismo si interrompe.

«Per le loro generazioni funzionava così: in linea discendente i figli ripetevano i mestieri dei genitori. A me, invece, è stata data la possibilità di scegliere, perché il lavoro è importante ed è qualcosa che ci realizza, perciò la cosa era: fai qualcosa che ti piace, che ti appassiona e che ti corrisponde».

L’ingresso nel mondo del lavoro

Così Michela sceglie di seguire i suoi interessi e studia Lettere, con indirizzo Discipline dello Spettacolo. I suoi genitori la supportano in questa scelta. Ma lei vuole comunque pesare il meno possibile su di loro, iniziando subito a lavorare. 

«Per diversi anni ho lavorato e studiato, interrompendo gli studi più volte. Mi sono laureata con un po’ di ritardo ma sono contenta di averlo fatto, perché ho cominciato a lavorare in teatro e piano piano mi si presentavano occasioni che non volevo perdere. Per me la cosa prioritaria era fare esperienza in quel campo. Poi, oltre al percorso teatrale, già a 19 anni facevo la babysitter. Ho sempre cercato di arrangiarmi e di diventare autonoma abbastanza velocemente».

Una volta laureata, Michela sperimenta diversi lavori nel mondo culturale, ma le sue entrate non sono mai davvero regolari.

«Ci sono stati momenti più facili: per un certo periodo ho lavorato in un programma di Sky quindi avevo un’entrata un po’ più cospicua. Però non sono state molte le volte in cui ho preso delle buste paga vere e proprie».

Benché non avesse una particolare vocazione alla libera professione, né tantomeno un’inclinazione alle gestione dei conti, Michela capisce in fretta che deve aprire una partita iva. 

«L’ho fatto con totale incoscienza perché mi sembrava che se volevo lavorare dovevo aprire la partita Iva per forza. Non è che avevo un’altra scelta. Poi soltanto da gennaio di quest’anno sono entrata nel forfettario ed è stata una grande liberazione. Prima mi era stato sconsigliato di farlo dai precedenti commercialisti».

In questa dimensione lavorativa, dentro la quale mette tutta la passione che ha, Michela si sente scomoda dal punto di vista finanziario.

«Devo dire che ho provato questa fase di stupore incredulo quando bisognava fare la dichiarazione dei redditi e capivo quanti soldi avrei dovuto pagare. Mi sembrava sempre una cosa fuori misura rispetto a quello che guadagnavo in un anno. Pensavo di essere io quella incapace. C’è stato un momento l’anno scorso in cui ho pensato che forse, non solo non riuscivo a produrre profitto, ma stavo proprio producendo costi per via della partita Iva».

«Ancora adesso sto pagando una serie di rateizzazioni per Iva non pagata, perché poi si tende a criminalizzare le persone che non pagano, ma a nessuno viene in mente che a volte nonostante si vorrebbe pagare tutto quel che c’è da pagare, proprio non si può. Non è questione di cattiveria oppure di essere criminali, è che i soldi non ci sono e non si sa proprio da dove tirarli fuori».

La difficoltà di lavorare in ambito culturale

Michela sa di non essere la sola a vivere questa situazione, ma la comunanza di destini con i lavoratori del mondo dello spettacolo oggi non si traduce in una complicità solidale e goliardica come succedeva ai suoi genitori e ai loro amici.   

«Ci sono dei momenti in cui la difficoltà è talmente grande che sembra che sia troppo difficile da sostenere. Poi, man mano che si va avanti con l’età diventa anche più pesante».

All’andamento incerto delle entrate, Michela fa corrispondere una gestione dei soldi che non è guidata dalla scientificità di un foglio excel ma dal dictat emotivo di non spendere. 

«Vivo semplicemente tentando sempre e comunque di spendere meno soldi possibile. Ho un rapporto immediato con il senso di colpa, perché qualsiasi cosa io spenda comunque mi sento in colpa, anche se è una cosa che mi serve tantissimo. Per esempio, se devo comprarmi una maglietta perché le ho finite,  mi sento in colpa perché penso che quei soldi mi servirebbero per fare altro. Per me è veramente difficile autorizzarmi».

Il marito di Michela è un falegname e lavora come dipendente, ciò significa che lui contribuisce maggiormente al bilancio familiare.

«Mio marito mi sostiene moltissimo e riconosce molto quello che faccio, quindi non mi fa pesare assolutamente questa situazione; ma faccio tutto da sola comunque. Mi sembra che sia troppo squilibrato il modo in cui ciascuno di noi riesce a contribuire al menage familiare. Noi abbiamo due figli grandi, una gatta e un mutuo, e quindi l’impegno è grosso e io vorrei poter fare di più. A volte mi sento molto a disagio».

I genitori di Michela, quelli che arrivavano allegramente a fine mese grazie al buffo circolare, si sono rivelati di grandissimo aiuto, umano ed economico.

«Sono stata supportata e aiutata molto da mia madre anche nella crescita dei miei figli. Molte attività, tipo la scuola di musica o il corso di circo, i miei figli le hanno potute fare grazie al sostegno della mia famiglia. Quella generazione lì sta tenendo un po’ in mano il paese».

Il potere delle storie

Durante la pandemia, momento drammatico per tutti gli artisti, Michela attiva un servizio di teatro delivery.

«Sono andata a raccontare storie a domicilio per persone di tutte le età in contesti molto diversi: a volte per un intero condominio, altre volte erano due persone, a volte era una consegna romantica…».

È un’ esperienza bellissima, quella, in cui Michela riconosce profondamente la potenza del suo lavoro.

«Sono fissata con le storie e con il potere che hanno di insegnarci a stare nelle scarpe degli altri, a riscoprire che cos’è l’empatia, a restituirci la possibilità di immaginare. Io ho vissuto delle situazioni in cui le persone mi volevano baciare in fronte, cioè che proprio mi ringraziavano perché avevano bisogno proprio di questo in un momento in cui tutto era chiuso. Per cui, c’era uno spiraglio di luce, una possibilità di spostarsi con la mente in un altro luogo, in un periodo in cui eravamo tutti bombardati da narrazioni pesantissime e continue».

Ma proprio quando percepisce l’importanza di ciò che fa, Michela prende atto che i beneficiari del suo lavoro faticano ad attribuire a esso un valore economico.

«A volte ho lavorato andando anche lontano, sempre all’aperto, sempre al freddo. Una volta ho raccontato delle storie a una famiglia di sei persone e sono andata via con 40 euro. Insomma, non è semplice. Lì c’è anche il discorso della valutazione del proprio lavoro: il mondo tende a dargli un valore più basso, però uno dovrebbe essere un pochino più fermo nel cercare di sapere quanto vale il proprio lavoro e io faccio molta fatica a collegare l’aspetto artistico e quello economico».

La retorica del sacrificio

Alla precarietà dell’attività culturale si aggiunge la retorica del sacrificio per il bene collettivo, secondo cui chi presta un servizio alla comunità deve essere mosso più da un senso di responsabilità morale che da un ritorno economico vero e proprio. 

«Devo dire che vi ho scritto che avrei voluto fare questa intervista dopo aver detto sì a una persona che mi ha chiesto di andare a raccontare gratuitamente, in una situazione un socialmente complessa. Tendenzialmente mi sono imposta di non accettare, ma ogni tanto cedo perché riconosco il valore e la potenza del racconto».

Michela oggi desidera una cosa soltanto.

«Io quello che sogno è di essere chiamata e pagata per quello che so fare. Non ho mai avuto desiderio di diventare famosa anche all’inizio, quando proprio tentavo di fare l’attrice e basta. Penso che sia una cosa molto delicata quella di usare la propria voce e il proprio corpo per guadagnare e per me vale la pena farlo quando sento che ha un senso profondo».

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