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di Rame

Ho ereditato i soldi, ma ho respinto l’idea che non andassero goduti

Oggi, Elena ripercorre la sua vita e il percorso di crescita come se fosse la protagonista di un romanzo, cogliendo sia le influenze invisibili che l’hanno segnata, sia le scelte consapevoli che l’hanno resa padrona del proprio destino, specialmente quando si tratta di denaro.

Tempo di lettura: 13 minuti

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Elena Valzania

Ascolta il podcast della puntata:

«Il tema dei soldi è un tema gigante, perché a volte è difficile gestire il denaro se non sappiamo qual è la nostra storia di famiglia, se non sappiamo quali sono le credenze sul denaro che ci hanno trasmesso, che abbiamo assorbito».

Elena oggi guarda l’intero arco della sua vita e della sua trasformazione come se fosse il personaggio di un romanzo, riconoscendo i condizionamenti sottili e gli atti di ribellione che ha compiuto, anche, e soprattutto, in materia di soldi.

Una famiglia votata all’investimento

Elena Valzania ha 57 anni, vive a Ravenna dove è nata, ed è una naturopata. La sua famiglia d’origine gravita attorno alla figura carismatica della nonna materna.

«Lei era una ragazza madre nel ’43, ed è scesa dalle colline con sua figlia sulla bicicletta. In fondo, era un’imprenditrice per quei tempi, anche se nessuno l’ha mai chiamata così. L’ho in parte riportata in questo ruolo perché pensavo: certo, era una cuoca, ma dal nulla ha costruito la sua attività, aveva un ristorante con il suo nome e una pensione».

La mamma di Elena lavora nel ristorante di famiglia, mentre suo papà lavora al porto.

«Lui era molto legato a mia nonna materna: erano spesso loro due a fare affari insieme. Lui era quello con le idee, colui che investiva, comprava l’appartamento al mare, lo rivendeva e ne acquistava un altro. Insomma, era un uomo dinamico sotto questo aspetto».

In famiglia non hanno problemi economici, ma non si può dire che siano avvezzi a godere della ricchezza.

«Non era certo una famiglia abituata alle vacanze o a spendere grandi somme di denaro. Era una famiglia più orientata agli investimenti. Infatti, anche la casa in cui abito l’ho ereditata da loro, e sia io che mia sorella abbiamo beneficiato di una situazione in cui i nostri familiari conducevano vite semplici, risparmiavano e investivano».

Inoltre, avevano una sorta di gestione comunitaria della proprietà, che coinvolgeva anche i nonni paterni.

«Abitavamo tutti insieme, in una casa di famiglia con me, mia sorella, mio padre e mia madre. Al piano di sotto c’erano i nonni e gli zii, quindi, pur non avendo grandi possibilità economiche, c’era un certo benessere, garantito dal fatto che tutti contribuivano alle spese».

A far cambiare improvvisamente le cose, sopraggiunge la malattia. Quando scopre di avere un linfoma, la nonna materna ha 56 anni e ha appena venduto il ristorante,  investendo i proventi in una casa con giardino dove avrebbe iniziato una nuova vita “normale” e raccolto i frutti di tanti anni di lavoro.

«A quell’epoca le terapie non erano così efficaci come adesso e quindi lei in pochi mesi poi è morta lasciando proprio una traccia indelebile nella famiglia».

La malattia come leitmotiv di una vita

Da quel momento in poi la malattia diventa una presenza costante nella vita di Elena.

«Mi sono resa conto, soprattutto in quest’ultimo periodo, quando abbiamo venduto e svuotato la casa, che la salute era un tema centrale nella nostra famiglia, quasi un’ossessione. Ho trovato ricette mediche degli anni ’70, radiografie… Sicuramente alcuni membri della famiglia erano piuttosto ipocondriaci. Rivedendo tutte queste visite e indagini mediche, mi è sembrato evidente quanto fosse radicata l’abitudine di andare spesso dal medico, di preoccuparsi per ogni minimo sintomo, come se si dovesse avere una salute perfetta, senza nemmeno un mal di testa o un mal di pancia».

«Quando ero ragazzina, mi ponevo una domanda dentro di me: perché ci si ammala? Perché in un certo modo? E perché una persona sì e un’altra no?».

La malattia e la morte si intrecciano fin da subito alle questioni economiche. Quando la nonna muore, infatti, per anni si continua a discutere dell’eredità.

«Quegli anni, da quel punto di vista, sono stati molto pesanti per me e mia sorella, perché le discussioni erano continue e spesso fuori luogo. A litigare erano i nonni e gli zii, che in realtà non erano nemmeno direttamente coinvolti nell’eredità, ma intervenivano comunque».

«A volte si pensa che l’eredità sia solo una fortuna, ma in realtà va gestita sotto molti aspetti, anche da un punto di vista emotivo. Perché, alla fine, quello che ti ritrovi a maneggiare è qualcosa che ricevi, sì, ma solo perché qualcuno è venuto a mancare».

Dopo pochi mesi dalla morte della nonna, anche il padre di Elena si ammala di una grave patologia cardiologica.

«Il ricovero d’urgenza, l’aspettare le telefonate, perché non c’erano i cellulari all’epoca, e quindi dovevamo restare in attesa di sapere se fosse vivo o morto. Vivevamo un po’ in questo limbo, cercando comunque di mantenere una certa quotidianità. Io avevo 12 anni e mia sorella ne aveva 9. Siamo rimaste schiacciate dentro tutta quella situazione».

Nel momento in cui il padre ha una ricaduta molto forte, viene consigliato alla madre di intraprendere una procedura per farlo andare in pensione anticipatamente. Se lui fosse morto, l’intera famiglia sarebbe rimasta senza sostentamento, in quanto sua madre pur avendo lavorato nel ristorante di famiglia, non aveva mai versato i contributi. La procedura di pensionamento viene avviata senza chieder il parere del padre.

«Questa situazione fu molto grave per lui, perché quando si riprese, disse che non aveva firmato niente. Il fatto che lui non fosse d’accordo con questa decisione ha generato un conflitto, perché mia madre diceva: “E quindi, chi siamo noi per te?” Come a dire, “non ti rendi conto della situazione? Pensi solo a te stesso e al tuo lavoro, ma in realtà il tuo lavoro è fondamentale per il nostro sostentamento”».

Salute e soldi ancora una volta si intrecciano nella storia di Elena.

«Quindi, è chiaro che il discorso della salute ha poi generato, non dico una debacle economica grave, perché quella non l’abbiamo vissuta, ma è stato come un fermo immagine. Tutti eravamo concentrati sul fatto che c’era questa questione irrisolta».

Una paternità condivisa

L’essere cresciuta con un padre malato di cuore condiziona le scelte di Elena.

«Mi ricordo che quando è arrivato il momento di scegliere l’università, avevo pensato di fare medicina, magari diventare cardiologa. Era un po’ la voglia di “salvare mio padre”, l’ho capito meglio col tempo. Però, in quel momento, pensavo che medicina significava sei anni di studi, poi altri quattro per specializzarmi, quindi in totale dieci anni, e alla fine, mi sono sentita attratta dalla farmacia».

Così, Elena si trasferisce a Bologna e inizia a frequentare l’Università di Farmacia. Quando arriva a 20, suo padre muore. Ma il modello familiare in cui lei e sua sorella sono cresciute fa sì che non si sentano mai veramente orfane.

«Mio zio aveva preso l’abitudine di darci, a me e a mia sorella, 200 mila lire, e io li usavo per la stanza. Quella fu l’occasione in cui lui iniziò a darci soldi, e poi continuò anche quando nacquero i figli, dando soldi per i bambini. Ogni mese, quando prendeva la pensione, preparava le buste per i bambini, quindi abbiamo sempre avuto il suo supporto».

«Diciamo che la paternità di mio padre è stata una paternità condivisa».

«Sia io che mia sorella abbiamo beneficiato del fatto che i nostri zii non si sono mai sposati e non hanno avuto figli, quindi eravamo le uniche due nipoti con tutti gli onori e gli oneri, nel senso che poi, quando sono invecchiati, li abbiamo accompagnati noi negli ultimi anni della loro vita».

Assieme ai soldi, però, Elena assimila anche il modo in cui i soldi sono considerati nella sua famiglia.

«Abbiamo ereditato molto la pesantezza della gestione, di come le persone affrontavano un po’ le situazioni, ma all’epoca non riuscivamo a vederlo. È stato più chiaro solo dopo».

Dopo la laurea, a 26 anni, Elena ottiene il suo primo lavoro in una farmacia al mare, aperta la stagione estiva. Tante ora di servizio, un’attività molto molto intensa. Eppure niente a che vedere con l’idea greve di lavoro che aveva assimilato in casa.

«Abbiamo ereditato questa visione del lavoro come sinonimo di fatica. Io volevo sfuggire a questa idea, non mi piaceva affatto, la trovavo troppo pesante. Per me, quando ho iniziato a lavorare, mi sembrava che lavorare fosse facilissimo rispetto allo studiare, che era complesso e senza che ti pagasse nessuno, facevi tanta fatica. Invece, a casa mia si diceva sempre: “Vedrai quando ti toccherà lavorare, vedrai”. Loro venivano dal concetto che il lavoro fosse uguale a fatica».

Ma quando cresci con l’equazione lavoro = fatica,  e quella fatica non la provi mai, diventa difficile dare un valore al proprio lavoro .

«È anche difficile, da un certo punto di vista, dare un valore al proprio lavoro quando è intangibile, intellettuale, qualcosa di meno concreto. Possono essere cose che hanno un grande valore, ma come lo misuri?»

Un amore a prima vista

In quella farmacia estiva Elena scopre un mondo totalmente nuovo, che la appassiona da subito.

«Mi sono innamorata dei tubetti di granuli di omeopatia, e con i primi stipendi, che in realtà erano stipendi favolosi, mai più visti, mi sono pagata un corso di omeopatia. C’era qualcosa dentro di me che diceva che c’era di più, che non era solo quello che si vedeva».

Questo le dà delle risposte sulle domande che si poneva fin da bambina sulle malattie.

«Non potevo credere al fatto di noi siamo sfortunati e i nostri vicini di casa no, e questa è stata la molla che mi ha portato a incontrare le medicine complementari».

Per due anni, Elena frequenta il corso di omeopatia, e intanto, inizia a lavorare in una nuova farmacia.

«Il mio titolare di farmacia era molto appassionato di omeopatia, quindi avevo uno spazio tutto mio dove potevo lavorare, consigliare, fare piccole cose. Ma io volevo dedicarmici molto di più. Tant’è che un giorno entrò una persona in farmacia, che scoprii poi essere l’informatore di una cooperativa di farmacisti da cui ordinavamo i prodotti, e disse che il reparto omeopatico si sarebbe ampliato. A quel punto mi si è accesa la lampadina. Ho scritto il curriculum a mano e poi mi chiamarono per fare i colloqui».

Il valore del proprio lavoro

Elena viene così assunta in una cooperativa a Bologna e diventa responsabile di tutto il settore naturale.

«Io, mossa dalla passione, accettai uno stipendio senza negoziare, ma non avevo considerato quanto costavano le case, per esempio. Dopo mi sono fustigata, pensando: “Ecco, vedi, non hai fatto le giuste valutazioni”»

Vivere a Bologna è molto più costoso di quanto immaginasse, ma per un colpo di fortuna riesce a trovare il monolocale al prezzo giusto e a iniziare questa parte della sua vita che è stata per certi versi molto bella.

«Perché poi l’ho trasformato in qualcosa che non esisteva. Ho iniziato a portare la formazione nel mondo del naturale ai farmacisti, coinvolgendo i migliori relatori in Italia. è stato un periodo molto creativo. La condizione di lavoro, anche se difficile sotto il punto di vista relazionale, offriva però uno spazio di realizzazione, manifestazione e movimento».

Elena non è proiettata a costruire una sicurezza economica. L’eredità avuta dalla sua famiglia le permette di riscrivere completamente la relazione con il lavoro.

«Ero completamente immersa nella creatività di costruire qualcosa di bello. Non mi sono mai trovata nella condizione di dover lavorare per mangiare, nel senso stretto del termine. Anche dopo, quando mi sono sposata, abbiamo sempre avuto una situazione, ovviamente privilegiata. Non è che navigavamo nell’oro, assolutamente, ma avevamo sempre alle spalle famiglie solide che ci hanno sostenuto».

«Ho tre figli, ma magari altre persone nella mia situazione ne avrebbero fatto uno e basta, finito. Invece, noi, presi dalla gioia di aver avuto la prima figlia, abbiamo fatto subito la seconda, che è nata un anno dopo l’altra».

Alla soddisfazione lavorativa, però, non corrisponde altrettanta soddisfazione dal punto di vista economico.

«Per quanto riguarda lo stipendio, va detto che, pur crescendo col tempo, non era uno stipendio favoloso. Era uno stipendio valido, ma dentro di me c’era sempre questa sensazione che non fosse abbastanza, che il ruolo non venisse riconosciuto abbastanza. D’altra parte, in sede di budget, l’omeopatia rappresenta l’1% del mercato farmaceutico. Quindi, nonostante ci fosse sempre molta creatività e voglia di imparare, vinceva, diciamo così, la dimensione marketing: chi pesava di più, chi portava più fatturato all’azienda».

A un certo punto, mentre lei è alla sua prima maternità, l’azienda in cui lavora viene acquisita da una più grande e si avvia il processo di fusione.

«Mentre tutti erano preoccupati del loro posto di lavoro, io a casa con mia figlia dicevo: “Vabbè, scelgono loro e vedrò cosa succede”. Però è chiaro che il mio lavoro mi mancava, perché per me il lavoro era come un altro figlio. Inoltre, ero capace, mi piaceva, avevo delle relazioni molto belle con le aziende, insomma, era una situazione molto attiva».

Al rientro in azienda, Elena capisce di essere finita dentro un gioco finalizzato a spingerla alle dimissioni. Il nuovo responsabile del personale avvia una tecnica di svalutazione e di velate minacce

«Un giorno mi ha detto: “Vedremo dove metterla”, e anch’io guardando la situazione ho chiesto: “Scusi, in che senso?” Perché c’era una filiale anche a Ravenna. E lui mi ha detto che forse cercavano qualcuno in magazzino. E io l’ho guardato e ho detto: “Scusi, in quale magazzino? Il mio ruolo è un altro.”»

Nel frattempo, Elena scopre di essere incinta della sua seconda bambina. Il suo focus è il benessere suo e della sua famiglia, perciò decide di non avviare una battaglia legale ma di patteggiare. Chiude la sua carriera aziendale con un licenziamento e un po’ di soldi da parte dell’azienda.

L’eredità tangibile

A quel punto, Elena ha dei soldi propri. Invece di conservarli per le spese quotidiane decide di investirli in una scuola di naturopatia. Ha la idee ben chiare: vuole lavorare come consulente per avere tempo da dedicare ai figli, consapevole che questo non avrà ripercussioni sulla qualità del suo lavoro.

«Quando sono nati i miei figli, quindi dalla prima figlia in avanti, non sono più rientrata nel mondo ufficiale del lavoro. Ho continuato a fare molta formazione per me e ho trasformato in vari modi queste conoscenze».

I soldi necessari ad andare avanti, però, in un modo o nell’altro, entrano. Ed Elena procede nella sua vita, con una leggerezza sconosciuta ai suoi familiari. Che le è concessa, però, anche grazie all’eredità materiale ricevuta da loro.

«Abbiamo sempre avuto questa mentalità di investire su di noi, che ne so, se avevamo mille euro ci facevamo un viaggio. Diciamo che finora è andata bene, però siamo consapevoli che è importante avere un po’ più di progettualità. Forse adesso diventeremo più saggi… ci stiamo dando una regola».

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