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di Rame

Guadagni meno, rinunci di più: la matematica ingiusta della coppia

Come può una donna separata, madre e libera professionista, gestire da sola il quotidiano e la crescita di una figlia? Anna ci racconta quanto il carico mentale e di cura, ancora oggi sulle spalle delle donne, renda fragile l’autonomia economica. Una condizione che rischia di perpetuare dinamiche di dipendenza economica, all’interno delle quali, come dice Anna, il rischio è che si separeranno solo donne economicamente solide, mentre le altre non potranno permetterselo, perché i costi, in tutti i sensi, sono troppo elevati.

Tempo di lettura: 12 minuti

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Anna Romanin

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«In quegli anni era quasi scontato che una mamma con un bambino piccolo dovesse lavorare part time, lavorare poco e occuparsi soprattutto del figlio. Certo, io volevo stare con mia figlia, ma a livello personale e di carriera è stato un intoppo, anche perché il lavoro che ho fatto dopo la sua nascita mi ha fatto fare un po’ di passi indietro».

Come fa una donna separata, che è mamma e libera professionista, a sobbarcarsi la crescita pratica di una figlia? Così ci ha scritto Anna Romanin in una email, toccando una questione di cui a Rame parliamo spesso: il carico mentale e di cura. Che, nella nostra società, resta ancora fortemente sbilanciato sulle spalle delle donne. Una condizione fragile che rischia di perpetuare dinamiche di dipendenza economica, all’interno delle quali, come scrive Anna, il rischio è che si separeranno solo donne economicamente solide o con famiglie solide alle spalle, mentre le altre non potranno permetterselo, perché i costi, in tutti i sensi, sono troppo elevati.

I soldi come chiave di indipendenza

Anna Romanin è una consulente aziendale che si occupa di uffici stampa e relazioni con i media. È cresciuta a Latisana, un comune di quindicimila abitanti in Friuli Venezia Giulia, in una famiglia monoreddito: il padre gestiva una tipografia insieme al fratello e lavorava come giornalista. La madre, invece, alla nascita di Anna, aveva lasciato il proprio impiego per dedicarsi completamente alla casa e alle due figlie. È in quel contesto di profonda disparità economica, che Anna capisce perché è importante guadagnare il proprio denaro.

«Io ricordo che ero piccola, potevo essere alle elementari. Mia mamma voleva cambiare la cucina di casa e cominciò a progettare , anzi, a sognare più che a progettare. Diceva: “Vorrei chiudere questa parete, vorrei mettere qui una cassa panca”, aveva in mente delle cose molto precise. E io la vedevo felicissima di questa sua idea. Mio papà, però, non voleva farlo e non gliel’ha fatto fare. Le negava tutto ciò che a lui non interessava: se invece interessava a lui, come un viaggio, allora lo facevamo. Ma se mia mamma voleva prendersi qualcosa per sé, la risposta era sempre poco generosa».

«E quindi la prima cosa che ho pensato, crescendo, è stata che i soldi danno libertà. Perché io ricordo perfettamente la frustrazione negli occhi di mia mamma quando non ha potuto realizzare questo progetto».

La madre, al tempo, non aveva gli strumenti per immaginare un modello diverso rispetto alla dipendenza economica dal marito. Anna, a questo proposito, ricorda ancora una certa conversazione in auto…

«Mia mamma aveva un giornale femminile e stava leggendo questo test. C’era una domanda che diceva più o meno: “Vuoi essere indipendente dall’uomo? Vuoi mantenerti da sola?”. Io e mia sorella, che eravamo sedute dietro, abbiamo risposto: “Certo, mantenerci da sole”. Mia mamma, invece, aveva scelto la risposta opposta: non lavorare e farsi mantenere».

L’educazione alla scarsità

Quando Anna ha 17 anni, la madre appena quarantenne muore per un tumore al seno.

«Credo che la perdita di mia mamma sia una cosa che tuttora non mi sia passata. La mia vita ha un prima e un dopo».

In quell’assenza improvvisa, Anna e sua sorella si ritrovano dentro una geografia familiare completamente nuova.

«Io ricordo di aver avuto una famiglia fino a un certo punto, e poi qualcosa di completamente diverso. A un certo momento non ho più avuto né una madre né un padre. Di mia madre potevo capire l’assenza: sentivo tutta la disperazione per la sua mancanza fisica. Di mio padre, invece, non l’ho mai giustificata, perché lui fisicamente c’era, ma di fatto non c’era. È una persona che si è presa poco cura di noi, che ci ha dato pochissimo sia dal punto di vista affettivo sia da quello economico».

«Io dico sempre che, invece, ho avuto la fortuna di avere una famiglia intorno: l’affetto dei miei nonni e dei miei zii, che mi hanno dato tutto quello che potevano, anche economicamente, perché mio padre era molto tirchio. Lui faceva grandi cose per sé. E io ricordo noi a casa con i nonni, a fare cose molto semplici, mentre mio padre era negli Stati Uniti a farsi dei giri pazzeschi».

L’educazione alla scarsità, imposta da quel padre avaro di soldi e di affetto, ha marchiato per sempre il comportamento di Anna.

«Andavamo a mangiare la pizza una volta l’anno e mio papà ci faceva prendere una sola bibita. Io, ancora oggi, quando vado fuori a mangiare la pizza, nonostante potrei prendermi anche cinque Coca-Cola, ne bevo una sola e non riesco a berne più di una».

L’indipendenza diventa presto il chiodo fisso che guida ogni decisione di Anna. E studiare è il mezzo attraverso cui ottenere l’agognata autonomia.

«Per me la cultura è un altro pezzo di libertà. Effettivamente sono una persona che legge e studia tantissimo, e credo ci siano pochissime materie che io non abbia toccato nella mia vita».

Terminato il liceo, Anna si trasferisce a Udine per studiare Lettere. Vorrebbe lavorare per essere indipendente. Ma inizialmente non può farlo…

«Noi abbiamo queste spiagge che diventano molto frequentate dai turisti, soprattutto austriaci e tedeschi. Ricordo che i primi anni, quando volevo fare questo lavoro stagionale, mio papà mi ha detto: “E poi a casa come facciamo?”. Lui non era in grado di occuparsi della casa, quindi dovevamo farlo noi. In quel momento, però, non riuscivo a ribellarmi».

E così si ritrova in una situazione simile a quella in cui aveva visto ingabbiata sua madre.

«Perché dovevo pulire casa, lavare, stirare… era un continuo interrompermi. Mio padre aveva una camicia e non ne aveva un’altra. Diceva: “Voglio la camicia rosa, perché mi hai stirato quella a righe”».

Anna oggi sa di essere rimasta incastrata in un meccanismo di aspettative sociali che andava ben oltre il volere di suo padre.

«Quando mia mamma è mancata, era scontato che noi dovessimo sostituirla nelle faccende domestiche, quindi dovevo dedicare il mio tempo anche a questo, oltre allo studio. Un paio d’anni dopo è mancata una cugina di mia mamma, che aveva un figlio maschio: lui aveva due anni più di me. Finito il liceo, è andato a studiare a Milano e nessuno gli ha mai detto che doveva restare a casa per prendersi cura del padre. Io, invece, mi sono sentita questa pressione».

Crescere tra generosità e sacrificio

Finita la Triennale, Anna si iscrive alla magistrale in Conservazione dei Beni Culturali. In quegli anni conosce l’uomo che diventerà suo marito. E sperimenta – da una parte la frustrazione di non riuscire a concentrarsi sullo studio – dall’altra la generosità incondizionata di chi ha intorno.

«E io ho avuto delle crisi e mi sono detta: “Adesso smetto di studiare, perché ho bisogno di lavorare”, perché per me studiare ha significato rinunciare a tantissimo. I miei suoceri, invece, mi hanno fatto conoscere la vera generosità, quella che non chiede niente in cambio. Loro sono stati generosi nel modo più puro che ci possa essere. Quando noi eravamo una coppia di ragazzi e stavamo insieme, loro mi aiutavano anche per le cose più semplici, come i vestiti: magari io dicevo che mi piaceva qualcosa e loro me la compravano».

«Loro non mi hanno mai fatto mancare nulla, e nemmeno i miei zii: sono sempre stati persone molto vicine, sempre presenti in termini di affetto, direi incondizionato nei miei confronti. Quindi, insomma, credo di aver perso, ma anche di aver avuto».

Al termine dell’Università, Anna sogna di lavorare nel mondo dell’arte. Ma per l’urgenza di costruire una sicurezza economica, accetta di essere assunta in un’azienda, nel settore della comunicazione.

«C’erano altre persone che hanno potuto permettersi di dire: “Va bene, a questo punto faccio una specializzazione, faccio un master”. Io, invece, ho fatto un’altra scelta, dettata dalla mia storia e dalla mia condizione».

Ciò a cui Anna non cede mai, è la lusinga di farsi mantenere da quello che nel frattempo è diventato suo marito, e che ha iniziato a lavorare come odontotecnico nello studio dentistico ereditato dal padre.

«Cioè, lui metteva a disposizione tutto. Abbiamo avuto un conto condiviso e mi dava davvero tutto. Avrei potuto fare come alcune mie amiche e dire “Va bene, smetto di lavorare, seguo le mie passioni, mi faccio mantenere”, perché mio marito avrebbe potuto mantenere entrambi senza problemi, e me lo ripeteva sempre. Io, invece, avevo questa convinzione: dovevo continuare a studiare, proseguire per la mia strada e mettere a frutto tutto quello che avevo fatto».

Il peso dei ruoli e la conquista del proprio valore

Come succede a molte donne, Anna concentra la sua battaglia per l’autonomia fuori di casa, nel mondo del lavoro, lasciando che all’interno delle mura domestiche le cose vadano avanti secondo i ruoli interiorizzati e le aspettative più radicate.

«All’interno della coppia, i sacrifici li ho sempre fatti io, perché lui era quello che alla fine ci manteneva, e io davo per scontato che dovessi essere io a sacrificarmi. Per me, spostarmi e lavorare molto lontano da casa era naturale: lavorare cinque giorni alla settimana a Venezia, fare quattro ore tra treno e camminata, e poi pulire casa nel fine settimana era una cosa normale. D’altronde, già da ragazza pulivo casa e studiavo, ero abituata a questo ritmo. Adesso, però, mi dico: no, non era giusto».

Quando nasce Silvia, la loro bambina, il solco della disparità si fa ancora più profondo.

«In quegli anni era quasi scontato che una mamma con un bambino piccolo dovesse fare part time, lavorare poco e occuparsi del figlio. Certo, io volevo stare con mia figlia, e qui si inseriva un’altra questione personale: il fatto di aver perso mia madre. Con mia figlia non sono mai riuscita a dire di no a qualcosa e ho sempre cercato di esserci, sempre. Ma provenivo da quella storia, e a livello personale e di carriera, è stato comunque un intoppo, anche perché il lavoro che ho fatto dopo la nascita di mia figlia mi ha fatto fare un po’ di passi indietro».

Quando Silvia ha cinque anni, Anna e suo marito si separano.  E quattro mesi dopo, improvvisamente, lei viene licenziata e inizia a poter contare solo sulla partita iva. È un mondo nuovo, in cui pian piano impara a farsi rispettare e a dare a se stessa il giusto valore.

«Ho fatto fatica anche a livello di colleghi, perché a volte non condividono. Io, in questo, sono generosa: do anche le mie bozze di contratti. Però ho dovuto imparare a tutelarmi, a darmi valore. Ho seguito dei corsi e letto diversi libri di professionisti che trattano proprio questo tema».

Mentre Anna costruisce il suo futuro da libera professionista, i conti da pagare continuano a esserci. Al suo ex marito, oltre all’assegno di mantenimento per la figlia, Anna chiede un contributo per sé, troppo basso rispetto a tutto ciò che ha sacrificato rispetto a lui: 150 euro al mese.

«È una cifra con cui all’epoca mi pagavo giusto la bolletta del telefono. Per me è stata simbolica, a dire: “Almeno riconoscimi tutto quello che ho fatto”. Sono stata malissimo, tra l’altro, quando aspettavo Silvia: ho fatto tutta la gravidanza a rischio, ospedalizzata, e quindi ho iniziato già lì a non lavorare. Se ripenso a questa storia, vedo tutta la mia fatica finanziaria, perché per tante cose non ho mai ricevuto un riconoscimento, nonostante tutto quello che ho fatto».

Per la figlia, intanto, Anna non bada a spese.

«Per esempio, per le spese extrascolastiche: al padre non piaceva viaggiare, ma io ho sempre cercato di portare Silvia in viaggio. Mi sono anche impuntata sul fatto che dovesse imparare l’inglese: alle elementari la mandavo da una madrelingua, perché potesse impararlo bene. Le dicevo sempre: “L’inglese è la tua libertà”».

Malattia, rischi e autonomia: la lezione della gestione finanziaria

Quando sua figlia ha 12 anni, Anna scopre di avere un tumore al seno, come sua madre molti anni prima. In quell’occasione scopre quanto poco siano tutelati i liberi professionisti in caso di malattia.

«Se sei ammalato e sei un dipendente, è molto facile: ti prendi la malattia e nessuno ti verrà mai a chiamare. Se sei invece un libero professionista, che si ammala, hai gli stessi problemi, ma senza la stessa protezione. E io avrei dovuto avere come un dipendente la libertà di dire: “Ok, adesso non sto bene, non mi preoccupo”. Invece ricordo mail da mandare, richieste da gestire… Me lo ricordo come un periodo molto duro, anche dal punto di vista lavorativo. Ho pagato proprio questo scotto della partita Iva».

Quello non è l’unico scotto che paga. Dopo la diagnosi di tumore al seno, Anna si scontra con le rigidità del sistema assicurativo per i liberi professionisti: chi ha avuto una malattia oncologica, infatti, incontra ancora molti ostacoli nel sottoscrivere polizze che coprano nuove malattie, e le soluzioni disponibili si limitano spesso solo agli infortuni.

«Io ho potuto avere l’assicurazione solo sugli infortuni, non sulla malattia. Adesso dicono che sì, dopo dieci anni è possibile, ma voglio dire: dieci anni per una persona che è stata malata e dichiarata guarita… Inoltre, per malattie di questo tipo devi comunque controllarti sempre. È quindi un tema importante per i liberi professionisti: è qualcosa che non viene considerata abbastanza, e invece dovrebbe, perché le persone si ammalano sempre di più».

Oggi Anna può dire di aver navigato tutte le sfide finanziarie che la vita le ha messo davanti senza dover mai rinunciare alla sua autonomia. Anzi, si appresta a compiere una scelta piuttosto estrema in questa direzione.

«L’anno scorso, quando abbiamo dovuto prendere in mano la situazione finanziaria di mio padre, abbiamo trovato dei buchi pazzeschi. Stiamo cercando di risanare il possibile, ma ci siamo messi in preventivo di rinunciare all’eredità, perché non possiamo permetterci di ereditare i debiti».

La situazione finanziaria del padre si è rivelata un monito per il futuro. Anna adesso non è più solo concentrata a garantirsi le entrate giuste e commisurate ai suoi bisogni ma anche a imparare a monitorare le uscite.

«Quindi, con mia sorella, spesso ci siamo dette: “No, non vogliamo finire così”. Così entrambe ci siamo messe a riprendere i nostri Excel delle spese. Anche il corso di Rame è stato fondamentale, perché dalla settimana scorsa mi sono messa a registrare tutto, anche il costo del caffè. Non è un’ossessione ma è diventata un’abitudine. E questo controllo è necessario».

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