Solo con la gravidanza, ho ritrovato il coraggio di rischiare
A Rame lo diciamo spesso: le decisioni economiche dei nostri genitori sono in grado di influenzare non solo il nostro cammino, ma anche la nostra personalità. Ed è proprio quello che è successo a Simona. Oggi, guardandosi indietro, si rende conto che quelle scelte non hanno condizionato solo il suo percorso, ma anche il suo carattere, rendendola meno ottimista rispetto al futuro e soprattutto meno propensa a rischiare. Il semplice fatto di esserne diventata consapevole, però, è stato per lei un vero e proprio motore di cambiamento
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«Mi ricordo che ero affascinata dal percorso intrapreso dalla mia professoressa, che seguiva progetti nei Paesi in via di sviluppo, come l’Argentina o l’India. Per me sarebbe stato bellissimo vivere un’esperienza simile. Ti dirò, però, che l’esperienza vissuta dai miei genitori mi aveva in qualche modo frenata: mi aveva resa più timida di quanto già fossi, al punto da non riuscire a lanciarmi senza la certezza di avere un paracadute. Non sono partita, quindi, per fare la classica esperienza all’estero».
Oggi Simona, guardandosi indietro, si è accorta che le scelte economiche dei suoi genitori non solo hanno condizionato il suo percorso, ma anche la sua personalità, il suo carattere. Rendendola meno ottimista rispetto al futuro, ma soprattutto meno propensa a rischiare. Il semplice fatto di essersene accorta, però, è stato un volano per il cambiamento.
Le prime difficoltà
Simona Cammarata ha 46 anni e vive a Ragusa, dove è nata e cresciuta in una famiglia monoreddito, dove solo il padre percepiva degli introiti. I suoi nonni venivano da un piccolo paese in provincia di Caltanissetta, da dove i figli erano tutti partiti per cercare fortuna altrove.
«C’era chi andava in Germania, chi nel Nord Italia, chi magari raggiungeva altri parenti che stavano un po’ meglio rispetto ai nostri nonni e potevano dare una mano».
In questo solco migratorio si inserisce la storia di suo padre, che a 15 anni se ne va a lavorare in Piemonte, per poi tornare in Sicilia a 25. È allora che conosce sua madre, si sposa e mette su famiglia. Quando Simona ha 11 anni però, il padre decide di mettersi in proprio e aprire un’impresa. Quello che sembra un passo verso l’indipendenza si trasforma in una sfida piena di ostacoli.
«Non è stato per niente tutto rose e fiori, perché siamo passati da una situazione in cui c’era uno stipendio fisso, una certa sicurezza, a dover assecondare le ambizioni di mio papà. Da lì sono iniziate tutte le trafile: un primo mutuo che richiedeva ipoteche, la ricerca di soci per finanziare l’azienda… insomma, ci sono stati tanti momenti di alti e bassi».
Tutta la famiglia è chiamata a fare sacrifici.
«Non è che ci fossero grandi mancanze, però magari dovevamo rinunciare al corso di danza o ad alcune attività pomeridiane, accontentandoci di farne una sola durante l’anno. Non avevamo tutte le possibilità che magari avevano le famiglie con una situazione più stabile».
Nonostante le incertezze, entrambe le figlie riescono a iscriversi all’università. Simona sceglie Economia e si trasferisce a Catania, mentre la sorella intraprende Veterinaria. Sono entrambe fuorisede e per alleggerire il carico economico sui genitori iniziano a lavorare nei weekend o durante le pause dallo studio.
«Mi ricordo che, a un certo punto, mia sorella iniziò a lavorare in una pizzeria nel fine settimana. Io invece facevo promozioni nelle farmacie o nei centri commerciali — creme solari, qualsiasi cosa mi proponessero. Insomma, nei weekend ci davamo molto da fare. Ti dirò che, a volte, con quei soldi ho anche contribuito a pagare la retta di mia sorella».
La paura di seguire i proprio sogni
Durante gli anni universitari, Simona inizia a immaginare un futuro che va oltre i confini della Sicilia. Le sue passioni prendono forma tra le lezioni di economia e sviluppo, affascinata da un sapere che intreccia numeri e pensiero critico.
«Paradossalmente, quando si sceglie una facoltà di questo tipo, non viene messo in evidenza che non si tratta solo di economia aziendale o diritto commerciale. C’era anche tanta filosofia, perché studiavamo microeconomia, macroeconomia, storia del pensiero economico, economia dello sviluppo… e io ero affascinata da queste materie, tant’è che alla fine scelsi di fare una tesi proprio in economia dello sviluppo».
I primi segnali di crisi
Ma mentre i suoi orizzonti si aprono, quelli dell’azienda del padre iniziano a restringersi.
«C’erano anche divergenze di visione con il vecchio socio, che guardava in grande. In effetti tentò di espandersi anche in mercati esteri, come la Tunisia, ma non avevano le risorse per essere davvero competitivi: l’azienda era troppo piccola. Mi viene da dire che mancavano troppe competenze. A livello operativo e tecnico forse c’erano, ma sul piano amministrativo non le aveva né lui né il suo socio».
«Oggi, probabilmente, avremmo avuto strumenti migliori — grazie al Codice della crisi e ai tanti indicatori di allerta che abbiamo a disposizione — per accorgerci che quella società stava erodendo completamente il loro patrimonio. Si andava avanti, sì, ma era come alimentare un pozzo senza fondo».
A un certo punto il padre, ormai in difficoltà, prende una decisione difficile ma necessaria: vendere le quote dell’azienda e accettare un impiego nel Nord Italia.
«Fu anche una scelta in parte obbligata, perché, non riuscendo più a percepire lo stipendio dalla sua azienda, aveva accumulato un finanziamento dopo l’altro. Quella che oggi definiremmo una situazione di sovraindebitamento del consumatore».
Suo padre e sua madre si trasferiscono ad Alessandria e Simona, con il suo sogno ancora tra le mani, si ritrova ad aiutare il padre a fare ordine in ciò che resta dell’impresa familiare.
«Lo sconvolgimento fu piuttosto pesante, soprattutto perché mi stavo per laureare e avevo bisogno di un altro tipo di supporto. Mia sorella era ancora all’inizio, quindi andava incoraggiata, bisognava rassicurarla dicendole: “Non ti preoccupare, vai avanti, ce la faremo”. Io invece fui chiamata a gestire tutto quello che c’era qui: mio padre, non appena riceveva i suoi introiti, mi diceva “Puoi andare in banca, comincia a chiudere tutto quello che è aperto”. Ricordo ancora, a 25 anni, neolaureata con basi esclusivamente teoriche, entrare in banca a chiedere una dilazione di pagamento».
Simona, dopo essersi laureata e aver sistemato le questioni finanziarie legate all’azienda del padre, sentendosi sprovvista di paracadute, decide di abbandonare le sue ambizioni e di intraprendere la strada più sicura: fare il tirocinio da commercialista.
«Probabilmente, avendo la sicurezza di una famiglia che mi avrebbe supportata in qualsiasi scelta, mi sarei sentita più libera di sperimentare, magari andando all’estero o provando altri tipi di consulenza».
Se non altro, Simona prova a essere il paracadute di sua sorella, affinché almeno lei non avesse paura di realizzarsi fuori dai confini della Sicilia.
«Mia sorella colse al volo l’opportunità di lavorare in Belgio: fece uno stage retribuito all’Università di Liegi e, grazie a quel contatto, riuscì a continuare a lavorare all’estero».
I condizionamenti familiari
A Ragusa, intanto, Simona si abilita come commercialista, apre la partita Iva e inizia ad acquisire i primi clienti. Ma continua a lavorare anche per altri studi. Il passo verso l’indipendenza professionale è rallentato da un timore profondo, radicato in ciò che aveva vissuto da figlia.
«Benché cominciassi a prendere della clientela, non riuscivo a sganciarmi da altri studi. Cercavo sempre di mantenere quella base che un po’ mi dava sicurezza, ma d’altro canto mi frenava perché mi toglieva molto tempo da dedicare a me stessa.
Anche la formazione di una reputazione era difficile: qui a Ragusa siamo in una piccola provincia, e chi intraprende questa professione spesso può contare su uno studio di famiglia alle spalle, godendo così di una reputazione già consolidata. Io, invece, non partivo da nulla e dovevo innanzitutto superare questo primo scoglio».
Simona, in quegli anni, non si concede il lusso di essere selettiva. Ogni incarico è accolto pur di mantenere un flusso di lavoro costante.
«Ci sono aziende che cambiano commercialista in modo quasi compulsivo, ogni due o tre anni, perché non si trovano bene o per conflitti caratteriali. Sapevo che avrei acquisito clienti con problematiche già particolari, ma allo stesso tempo prendevo tutto, perché la partita IVA italiana ha le sue precarietà».
Questo ritmo, però, non è sostenibile a lungo.
«Diciamo che affogavo in questo circuito e non avevo più tempo per gestire anche la collaborazione con l’altro studio».
Il cambio di rotta
Il punto di svolta arriva quando Simona affronta la gravidanza.
«Mi ero accorta che, a un certo punto, non avevo più tempo né per la mia famiglia, né tantomeno per me stessa. Ricordo quando dovetti fermarmi per la nascita di mia figlia: il giorno del parto ricevevo telefonate in continuazione, con gente che mi diceva “Eh sì, ma io ho bisogno di questo”, “Eh sì, ma io ho bisogno di quest’altro…”».
In quel momento, Simona scopre di poter contare su una solida rete di colleghi costruita nel tempo.
«Quando sei un libero professionista, se ti ammali, hai figli o genitori anziani da assistere, l’unico aiuto concreto è la collaborazione con altri colleghi, magari organizzandosi in cooperativa, in modo che possano sostituirti quando necessario. Non c’è altro supporto in questo senso. Perciò, se coltivi buoni rapporti, ci si può augurare che tutti si aiutino a vicenda. Tuttavia, rientrare gradualmente non fu facile, e soprattutto fu complicato convincere i clienti che, nonostante avessero scelto una commercialista donna, io ero ancora lì».
Dopo la gravidanza, la necessità di cambiare inizia a prendere forma, e Simona sceglie di ascoltarla. Decide di chiudere la collaborazione con lo studio per cui lavora e di mettersi totalmente in proprio.
«Per me quella collaborazione non era solo una fonte di reddito, ma anche un vero e proprio cuscinetto, perché avevo l’appoggio di altri colleghi. Quando ho deciso di staccarmi fisicamente – aprendo il mio studio – ho iniziato anche a sostenere delle spese, come il canone annuale del programma che utilizziamo, o a pagare personalmente altre collaborazioni… perché adesso, a mia volta, mi avvalgo di collaboratori che mi aiutano, perché da sola non riesco a fare tutto».
L’importanza di saper dire di “no”
A dispetto delle paure iniziali, le entrate di Simona iniziano a stabilizzarsi, permettendole per la prima volta di guardare oltre la semplice sopravvivenza economica. E imparare a lasciare andare ciò che, pur garantendo un buon guadagno, spesso non rappresenta il giusto compromesso con il proprio benessere.
«Il focus era cambiato: non si trattava più di acquisire clienti in maniera bulimica, ma di scegliere incarichi che mi permettessero di gestire meglio il mio tempo, di avere tempo di qualità. La mente deve pur respirare, quindi è importante avere spazio per fare qualcosa di diverso dal proprio lavoro. Per la salute mentale, secondo me, è fondamentale spaziare per poi tornare più energici a ciò che si fa».
«Quest’anno ho potuto fare un corso di teatro: mai avrei pensato di trovare il tempo per farlo, e invece è successo. È stata un’esperienza bellissima, un vero arricchimento, qualcosa di totalmente diverso dalla mia attività, che mi ha messa alla prova, costringendomi a uscire dalla zona di comfort».
Anche all’interno della sua professione, Simona inizia ad esplorare temi che toccano corde molto profonde, come la gestione delle crisi da sovraindebitamento, in particolare i piani di ristrutturazione del consumatore.
«E lì ho rivisto molto di quello che era successo alla mia famiglia, e ho capito come oggi non sia più una penalizzazione accedere a uno strumento del genere, ma rappresenti invece un punto di svolta, un punto di partenza. Ho notato come, a un certo punto, la gente entri in confusione. Non sarebbe male se, oltre al gestore della crisi — magari assegnato dall’organismo di composizione della crisi o dal tribunale stesso — si affiancasse anche una figura che fornisse un supporto psicologico. Il consumatore, infatti, durante l’evento shock che lo porta a una crisi personale e professionale, accumula mutui e debiti, e a un certo punto perde lucidità. Diventa molto difficile per il gestore della crisi riuscire a seguirlo in modo analitico e costante. Però è davvero bello quando riesci ad aiutare queste persone: gli ridai la possibilità di ricominciare la propria vita, la propria famiglia».
Mentre sua sorella si è realizzata in Francia, divenendo socia di una clinica veterinaria e lasciandosi alle spalle il pregiudizio che aveva vissuto in Sicilia. E cioè che una donna non si potesse occupare di animali di grossa taglia, Simona non ha più il desiderio di andare via.
«Ormai ho costruito la mia realtà qui e ne sono contenta, nonostante le difficoltà. Ci sono periodi in cui devi ricominciare da capo: magari c’è un cambio di guardia, perdi un cliente ma ne acquisisci altri, fai nuove esperienze. La mia professione mi piace perché è varia, perché ti permette di occuparti di tantissime cose e aspetti diversi. Si aprono così nuove opportunità ed è tutta un’evoluzione. La mia professione impari ad amarla».