Giulia Muscatelli: «Così le mancanze emotive si trasformano in bisogni materiali»
Spesso il modo in cui spendiamo parla di noi più di quanto immaginiamo. In questa puntata, Giulia Muscatelli, autrice del podcast “Poveraccia”, appena uscito con Mondadori Studios, ripercorre con noi la sua storia: i debiti accumulati negli anni, le difficoltà nel gestire il denaro e il momento di consapevolezza che le ha permesso di affrontarli. Una riflessione sincera e intensa su come le mancanze emotive possano trasformarsi in bisogni materiali, e su come imparare a riconoscerle possa cambiare la vita.
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«Io ho sofferto di disturbi alimentari per molti anni. A un certo punto ho preso il disturbo alimentare e l’ho messo sull’acquisto: prima mangiavo, adesso vado a comprare cose. Quindi io pensavo: “C’è una cartella esattoriale… cavolo, che ansia! Dai, va beh, mi compro ancora questi stivaletti e poi basta!”».
Il modo in cui spendiamo racconta spesso molto più di quanto immaginiamo. In questa puntata, Giulia Muscatelli, autrice di “Io di amore non so scrivere”, per Feltrinelli, ripercorre con noi la sua storia e il suo rapporto con il denaro: dai debiti accumulati negli anni alla presa di coscienza che le ha permesso di affrontarli. Una riflessione sincera su come le mancanze emotive possano trasformarsi in bisogni materiali — un tema che Giulia esplora anche in Poveraccia, il suo podcast appena uscito per Mondadori Studios.
Il culto della ricchezza
Giulia ha 36 anni e cresce a Torino.
«Una città che secondo me ha un impatto particolare sul tema del denaro, perché ancora oggi è proprio spaccata in due, dalla collina in giù. E io sono cresciuta in una famiglia fintamente – scoprirò poi – ricca, o comunque che pensava di essere tale».
L’equivoco è alimentato dal comportamento di suo padre, giornalista sportivo, che soffre di un disturbo bipolare, inizialmente non diagnosticato.
«E questo aveva un impatto fortissimo sul suo modo di gestire il denaro, come spesso capita alle persone che soffrono di questa malattia. Perciò uno dei ricordi principali che ho di mio padre sono le sue spese folli. Così come uno dei ricordi principali che ho dell’infanzia di mia madre è lei che si arrabbia con lui perché spende troppo. Mi ricordo che aveva comprato dei diamanti a mia madre e lei si era arrabbiata moltissimo, chiedendogli di restituirli. Però tutto questo faceva parte della sua malattia».
Giulia cresce così nel culto dell’apparenza.
«Mi ricordo queste litigate con mia madre perché lui mi comprava le magliette “status symbol” – tipo la Lacoste – e mia madre giustamente lo rimproverava. Lei è sempre stata una donna molto in difficoltà con un uomo come mio padre, ma anche molto ferma e severa sulle questioni economiche».
Lei proviene infatti da una famiglia operaia, che era arrivata dal Sud a Torino per lavorare alla Fiat e che su quel lavoro aveva faticosamente costruito la possibilità di un salto di classe.
«Mia nonna quando era bambina andava a vedere le ricotte alla sua maestra, in modo tale che, con quei soldi, potesse andare a scuola. Mia mamma, poi, racconta sempre che loro non andavano mai in vacanza, non solo perché non avevano i soldi per farlo, ma perché in famiglia veniva giudicato ingiusto andare in vacanza se non eri ricco».
Il peso dell’assenza
Quando Giulia ha 11 anni, il fragile castello di ricchezza e agio in cui è cresciuta, crolla improvvisamente. Suo padre muore in un incidente stradale. Giulia e la madre si trovano a fare i conti con l’assenza. E soprattutto, si accorgono per la prima volta, che in realtà, non hanno nulla.
«In realtà non è che non ci fosse nulla: c’era una vera e propria marea di debiti. Ventimila euro di multe, seimila euro di canoni… e poi, tutto era intestato a mia madre, quindi le responsabilità ricadevano su di noi. E lì, come dice sempre mia madre, non c’è stato nemmeno il tempo per il lutto, perché c’erano molte cose da sistemare. Mia mamma aveva 39 anni, una figlia di 11, e improvvisamente si è ritrovata a portare sulle spalle un peso enorme. In quel momento, la mia vita è cambiata totalmente».
Fino a pochi anni prima, a lavorare in famiglia era solo il padre, che non voleva che la madre svolgesse nessuna attività professionale.
«Perché voleva che stesse insieme a me. Poi ha iniziato a lavorare in redazione con mio padre: gestiva la parte economica, l’amministrazione… e cercava di gestire anche lui. Quando mio padre è morto, lei lavorava da una settimana per un’altra azienda, e da quel momento ha sempre lavorato il triplo».
Lì, inizia a cambiare il loro modo di spendere il denaro.
«È cambiato il modo di fare la spesa di mia madre. Non avevo mai visto mia madre dire: “Non compriamo le Camille perché sono care, magari faccio una torta io”. Invece, improvvisamente, la vedo di notte piangere di nascosto, cercando di capire come fare per far quadrare i conti. Immagino fosse difficile per lei: oggi abbiamo mille strumenti per spiegare le difficoltà ai più piccoli, ma all’epoca si tendeva a nasconderlo».
Nel frattempo, Giulia inizia le medie in una scuola particolare, scelta dal padre prima che morisse. È un istituto privato, che raccoglie i rampolli di famiglie molto agiate.
«Ho proprio in mente mia mamma che mi diceva: “Noi non siamo come loro, tu devi smetterla di pensare che siamo come loro, tu sei diversa da loro”. Oggi capisco cosa volesse dire, ma in quel momento era solo sottolineare una diversità che io sentivo già profondamente. C’era anche una rabbia verso mio padre che ci aveva lasciato in quella situazione assurda e che, oltre alle altre cose, accentuava la mia differenza rispetto agli altri».
Questa diversità diventa la trama dell’adolescenza di Giulia.
«Le mie amiche, che sono mie amiche ancora oggi, mi facevano le ricariche al cellulare perché dicevano che non rispondevo ai messaggi, perché io non avevo soldi e non volevo chiederli a mia madre. Poi, quando andavo a casa loro, o loro venivano a casa mia, la situazione era ovviamente diversa. Se dormivano da me, si scontravano con mia madre per andare in bagno; se invece io dormivo da loro, i genitori neanche li vedevo, perché stavano in ali diverse della casa. Questa cosa mia mamma ancora oggi la sottolinea, dicendomi che ho solo amici ricchi. E io le rispondo sempre: “Beh, guarda in che scuole mi hai mandato!”».
Dopo il liceo, Giulia desidera proseguire gli studi. Sua madre acconsente, ma a condizioni ben precise.
«Lì mia mamma mi diceva: “Se vuoi continuare a studiare, sappi che qua c’è uno stipendio solo. Io non ti darò soldi per uscire, per vestirti, per le sigarette o per il cellulare. Quelli te li devi guadagnare tu. Io ti do i soldi per vivere qui, per stare in casa tua, ma tutti gli extra sono a tuo carico”».
Giulia, così, oltre a studiare, inizia a lavorare come cameriera e animatrice. E ad aiutare sua madre.
«Non le davo una cifra fissa per le spese, ma ho sempre contribuito: facevo la spesa e se c’era da pagare qualche bolletta la pagavo».
A vent’anni, le conseguenze della gestione finanziaria approssimativa del padre bussano nuovamente alla porta. La casa acquistata anni prima dal padre con un accordo informale — metà in denaro e metà in lavoro — torna nelle mani del proprietario. Giulia è costretta a lasciare la casa in cui è cresciuta.
«In questa casa molto grande noi avevamo mobili bellissimi, tappeti… E io e mia mamma ci rendiamo conto che, di fatto, lì c’era un patrimonio. Tra l’altro si trattava di oggetti che a noi non facevano altro che ricordare quella vita che non era più nostra. Così, ci mettiamo a vendere tutto».
Il desiderio di ricchezza
Si trasferiscono in affitto, e Giulia inizia a covare dentro di sé un desiderio preciso: diventare ricca.
«Mi ricordo che dicevo a mia madre di non preoccuparsi per la casa, che un giorno gliela avrei comprata io. Ho sempre desiderato la ricchezza, ma non per possedere cose, come mio padre, ma per avere serenità. Volevo dimostrare che qualcuno in famiglia ce l’aveva fatta e che tra di noi c’era chi riusciva a realizzare qualcosa».
Per centrare l’obiettivo ricchezza, Giulia si iscrive a Giurisprudenza, ma presto si rende conto che quella strada non fa per lei. Decide allora di seguire la sua vera passione, la scrittura, virando su Lettere. Se non fosse che, durante l’università tenta quasi per gioco il test di ammissione alla Scuola Holden, una delle più ambite scuole di scrittura creativa italiana, che all’epoca accettava solo 30 studenti all’anno, e con grande sorpresa viene ammessa.
«Mi ricordo che quando sono uscite le graduatorie e ho letto il mio nome fra i primi 30, ho chiamato mia madre per dirglielo, e lei al posto di farmi i complimenti la prima cosa che dice è: “E adesso come cavolo la paghiamo?”».
Giulia congela gli esami all’università, fa un prestito per finanziare gli studi alla Holden e intanto continua a lavorare come cameriera per mantenersi.
«Lavoravo la sera nel locale dove i miei compagni andavano a bere e sebbene questa cosa non sempre mi divertisse perché avrei preferito stare con loro, fare questo lavoro mi ha dato la certezza che, in un modo o nell’altro, io me la sarei sempre cavata».
Il peso dell’indipendenza
Terminati gli studi alla Scuola Holden, a Giulia viene offerta la possibilità di collaborare con l’istituto. Sua madre vorrebbe che finisse l’università, ma Giulia sceglie di interrompere gli studi e iniziare a lavorare.
«Nonostante mia madre dica che questo sia il motivo per cui ho smesso di studiare, io sono stata molto grata di questa opportunità. Mentre i miei compagni aspettavano di “scrivere il romanzo della vita”, perché avevano dei genitori che potevano pagargli l’affitto, io non potevo permettermi di perdere tempo a scrivere. Volevo lavorare e restare lì, perché mi piaceva davvero».
Giulia apre così la Partita Iva e, a due anni dal termine della Holden, lascia la casa della madre per iniziare a vivere in autonomia.
«Ero senza un soldo e totalmente incosciente. Lì è cominciato il disastro e sono iniziati i miei debiti».
Spendere per colmare un vuoto
Giulia affianca alla collaborazione con la Scuola Holden alcune esperienze nel mondo della pubblicità, riuscendo a guadagnare anche 4.000 euro al mese.
«Erano anni in cui, tra l’altro, Torino andava benissimo nel settore e si fatturava moltissimo. E io cosa faccio? Penso che i soldi che guadagno siano tutti miei e non metto da parte nulla. Nel primo anno sforo il regime in cui ero e mi arriva una sanzione da pagare, della quale, però, me ne frego totalmente».
«Non è che non pagassi mai le tasse: ne pagavo solo alcune, ma completamente a caso, in uno stato di incoscienza identico a quello di mio padre. Ho proprio perpetuato qualcosa che avevo visto fare a lui».
Giulia spende i suoi guadagni in vestiti e cene, pur consapevole che i debiti si stanno accumulando. Spendere le dà l’illusione di sfuggire a un malessere che cresce dentro di lei.
«Non mi piacevo. Non mi piaceva il modo in cui conducevo la mia vita, perché sapevo che stavo vivendo al di sopra delle mie possibilità. L’unico modo che avevo per non pensarci era spendere soldi. Quella era la mia strategia: colmare il vuoto in modo del tutto superficiale, anche se poi quel vuoto tornava, insieme a tutti i pensieri e a tutte le ansie. E i vestiti, in particolare, sono stati una rovina. Ho speso tantissimi soldi in abiti, e non parlo di Zara: mi compravo Gucci, Balenciaga…, mentre le cartelle esattoriali restavano lì ad aspettarmi».
In sei anni, Giulia arriva ad accumulare 50 mila euro di debiti. Fino al giorno in cui entra nella sua vita quello che è il suo attuale compagno.
«Lui notava che sul mio tavolino – e fa ridere pensare che fosse un tavolino di Cattelan – si accumulavano tantissime lettere e un giorno mi chiese che cosa fosse tutta quella roba. In, comunque, soffrivo molto per quella situazione, non è che vivessi proprio a cuor leggero».
Eppure ci vorrà un po’ perché Giulia ascolti il suo grillo parlante.
«Anche se rido e scherzo, il denaro, per me, è un tema che mi distrugge. Lavora su di me in maniera importante, perché in parte gli attribuisco anche il dolore legato a mio padre, al fatto che ci abbia mentito. Mi chiedo: se non ci fossero stati quei problemi di soldi, quella sera lui non sarebbe uscito? Ci è voluto un po’, ma alla fine il mio compagno mi ha fatto capire che dovevo attivarmi, prendere in mano la situazione e muovermi».
Un’altra leva importante nel suo percorso verso il cambiamento, è la gravidanza.
«Il giorno dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, mi è arrivata l’ultima cartella esattoriale: 16.000 euro. Mi sono spaventata, ma non perché i figli ti cambiano, ma perché ho avuto paura che mio figlio potesse crescere come me. Non volevo lasciare a mio figlio i miei debiti, perché quelli di mio padre li ho pagati io e li ho pagati da sola».
Il costo del riscatto
Giulia decide così di affidarsi a una consulente finanziaria.
«Mi ha insegnato a gestire questa situazione e mi ha spiegato che se salti una rata non sei furba, perché poi ti torna indietro tutto. Ha letteralmente preso in mano le mie cartelle e ha organizzato un piano di recupero. Ancora oggi il problema è lo stesso: per rateizzare questi debiti spendo una quantità di soldi al mese molto alta, e questo significa che devo lavorare per guadagnare quella cifra. Di conseguenza, molti dei lavori che faccio non mi rendono felice».
Nel percorso di consapevolezza di Giulia, il rapporto con il compagno gioca un ruolo fondamentale. La sua presenza la aiuta a riflettere sulle scelte di spesa e a distinguere tra desideri momentanei e necessità reali.
«Mi fa rendere conto che, effettivamente, non mi serve lo stivaletto in più e, allo stesso tempo, mi sento malissimo rispetto a quello che succede nel mondo. Per esempio, adesso che finiamo l’intervista vado a manifestare, però ieri mi sono comprata gli stivaletti scamosciati da 150 euro. Vivo sempre questa contraddizione enorme, ed è proprio il motivo per cui mi piace scrivere di soldi: non sono assolutamente risolta, c’è un caos enorme dentro di me».
Eppure, abitare questa complessità è il primo passo concreto per trasformare il proprio rapporto con i soldi, nonostante le incertezze e le difficoltà che si possono incontrare sul percorso.
«Come quando il mio compagno dice: “Ma perché invece di comprare a Lucio tutte quelle magliette non gli apriamo un libretto postale?” e io gli rispondo: “Ok, fallo tu”. Perché per me è come se fossi nuova in questo mondo. Quando schiaccio “paga” su quelle rate, mi sento come se fossi andata in palestra e avessi fatto un allenamento da figa atomica… e invece ho solo pagato delle tasse, perché è tutto nuovo per me».