Fiscal drag: il meccanismo per cui si guadagna di più ma si diventa più poveri
Ricevere un aumento in busta paga dovrebbe far sorridere, ma spesso il potere d’acquisto resta fermo o addirittura diminuisce. È l’effetto del fiscal drag, un meccanismo fiscale silenzioso che aumenta il prelievo statale senza modificare le aliquote. Vediamo come funziona, chi colpisce di più e quali conseguenze ha per salari e pensioni.
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di La redazione
Immagina di ricevere un piccolo aumento in busta paga. Ti senti più sereno, ma dopo pochi mesi ti accorgi che il potere d’acquisto non è cambiato. Anzi, a fine anno paghi più tasse di prima. È l’effetto del fiscal drag, o drenaggio fiscale: un meccanismo invisibile che si attiva quando i salari nominali crescono per effetto dell’inflazione, ma gli scaglioni Irpef restano fermi. Così, senza che nessuna legge lo preveda, lo Stato incassa di più. Dietro questa dinamica c’è un paradosso: un aumento salariale pensato per compensare la perdita dovuta ai rincari può trasformarsi in un aggravio fiscale. In altre parole, si guadagna un po’ di più ma si diventa leggermente più poveri.
L’allarme del sindacato
Nel suo ultimo rapporto, la Cgil denuncia che i lavoratori dipendenti e i pensionati sono le principali vittime del drenaggio fiscale. Un esempio contenuto nello studio mostra che un dipendente con 27.794 euro lordi nel 2022 e 30.993 nel 2024 avrebbe pagato 1.382 euro in più di Irpef, non perché abbia guadagnato davvero di più, ma semplicemente perché il suo reddito nominale è scivolato in una fascia superiore. «Il sistema perverso continuerà a far impoverire lavoratori e pensionati all’infinito, fino a quando il drenaggio non sarà fermato», si legge nel documento. Secondo la Cgil la perdita media per chi si trova nella fascia tra i 25 e i 40 mila euro lordi sarebbe la più significativa: troppo alti per beneficiare dei bonus, troppo bassi per assorbire l’aumento fiscale.
Per il sindacato, è necessario introdurre un meccanismo permanente di aggiornamento automatico di scaglioni e detrazioni, in modo che l’inflazione non si traduca in un vantaggio per l’erario a discapito dei redditi fissi. «Il fiscal drag colpisce lavoratori e pensionati. Serve restituire ciò che è stato tolto e indicizzare tutto all’inflazione», ha commentato in proposito Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil. Secondo i suoi calcoli, del resto, questa “tassa nascosta” avrebbe sottratto 25 miliardi di euro ai redditi fissi tra il 2022 e il 2024.
Chi non è d’accordo
Non tutti, però, condividono questa lettura. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, diretto da Carlo Cottarelli, in una sua analisi ha ridimensionato la portata del fenomeno. Secondo i ricercatori dell’Università Cattolica, infatti, tra il 2019 e il 2023 il prelievo fiscale effettivo sui lavoratori è sceso dal 19,4% al 18,2%, segno che «gli effetti del fiscal drag sono stati in gran parte compensati da altri interventi fiscali». Anche diversi economisti invitano a distinguere tra principio e realtà dei numeri.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha riconosciuto che «il drenaggio fiscale è un tema reale», ma ha aggiunto che «intervenire in modo automatico costerebbe troppo allo Stato e andrebbe valutato in base alla sostenibilità dei conti pubblici». Per altri studiosi, il problema non riguarda solo la tassazione ma la rigidità del sistema fiscale: in assenza di adeguamenti, ogni incremento nominale produce effetti regressivi. Tuttavia, automatizzare le correzioni avrebbe un costo significativo per lo Stato e ridurrebbe il margine di manovra della politica di bilancio proprio nei momenti di maggiore inflazione.
Guardando oltre i confini e il dibattito interno
In Italia, la questione del fiscal drag è anche politica. Poiché questo meccanismo consente allo Stato di incassare di più senza modificare formalmente le aliquote, ogni governo – indipendentemente dal colore – ne trae un vantaggio silenzioso. Non affrontarlo significa legittimare una forma di tassazione implicita che pesa soprattutto su chi vive di lavoro o di pensione. È un equilibrio fragile: correggerlo richiede risorse, ma ignorarlo mina la credibilità del sistema fiscale e, con essa, la fiducia dei cittadini.
In Europa, invece, diversi Paesi hanno scelto la strada opposta. Dal Belgio all’Austria, gli scaglioni fiscali vengono aggiornati annualmente all’inflazione, riducendo così l’effetto del “bracket creep”. La Commissione Europea lo ha raccomandato più volte, ricordando che in periodi di inflazione elevata un sistema fiscale “elastico” è essenziale per tutelare la progressività e la domanda interna. Ma al di là dei numeri, resta una dimensione sociale: quando gli aumenti contrattuali finiscono «risucchiati» dalla leva fiscale, la fiducia nel sistema si indebolisce. Secondo Elsa Fornero «il lavoro perde se non cresce il potere d’acquisto, e la motivazione si consuma».
Una verità nel mezzo
Che lo si consideri una tassa occulta o un difetto del sistema, il fiscal drag resta un meccanismo capace di erodere silenziosamente il valore del lavoro. Il suo peso varia nel tempo, ma la sensazione che produce – quella di guadagnare senza crescere davvero – è sempre la stessa. Come sottolinea l’analisi di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, «il drenaggio fiscale non è una tassa in più, ma un effetto collaterale di un sistema che non si muove con l’economia reale».
In altre parole, il fiscal drag è una questione di giustizia e di aggiornamento del sistema. Per la Cgil rappresenta un furto silenzioso ai danni dei lavoratori; per molti economisti, un difetto strutturale che va corretto, ma con equilibrio, per non compromettere le finanze pubbliche. Intanto, ogni volta che un aumento salariale arriva in busta paga, vale la pena chiedersi: quanto resta davvero in tasca, e quanto finisce – silenziosamente – al fisco?