Finalmente ho spezzato la catena della povertà

Da ragazza, Silvia Calenic vive il fallimento della piccola attività imprenditoriale di famiglia. Si rimbocca le maniche e inizia a lavorare, ma pur guadagnando bene realizza di essere incapace di accumulare ricchezza. Si sente stritolata dentro quella che lei chiama la catena della povertà. Inizia così un percorso di auto educazione finanziaria che la porta, pian piano, a permettersi di sognare gli stessi sogni falliti dei suoi genitori.

Tempo di lettura: 10 minuti

blank
Silvia Calenic

Ascolta il podcast della puntata:

Ho conosciuto Silvia guardandola attraverso uno specchio, in un pomeriggio in cui mi sono regalata assieme a un’amica una seduta di armocromia, quella tecnica per cui scopri la tua palette di colori naturale. Silvia ci insegnava a guardarci in modo nuovo e intanto ci parlava dei suoi progetti imprenditoriali. Ho capito subito che dietro quel caschetto biondo si nascondeva una storia da romanzo. E che quella storia, come suggeriva il suo cognome, non era iniziata in Italia.

Silvia Calenic cresce nella Romania degli anni 90, un Paese che sta vivendo la transizione shock verso l’economia di mercato. Quando lei e sua sorella sono adolescenti, i genitori decidono di lasciare il posto fisso e di fare un grande salto nel vuoto aprendo un piccolo negozio di quartiere. Non avevano nessun tipo di competenza né di business né di gestione dei soldi. «Inutile dirti che dopo un anno è stato un flop e ci siamo ritrovati tutti noi a pagarne le conseguenze».

Silvia aveva 15 anni.

“Ero abbastanza grande da poter fare la commessa presso il negozio dei miei, ancora troppo piccola per capire come aiutarli nella gestione di un piccolo affare di famiglia. Però ricordo benissimo il grosso impatto a livello finanziario che la chiusura di questo negozio ha avuto su di noi.”

La sfida a quel punto diventa ripagare i debiti creati.

«Ti posso dire che abbiamo vissuto situazioni limite dove non c’erano soldi per il cibo o per andare a scuola. La mia adolescenza è segnata da questi ricordi, dove c’era tanto bisogno di poco ma quel poco non era disponibile immediatamente».

Questa vicenda scatena in lei una forte voglia di rivalsa e la spinta a non trovarsi mai più in una situazione simile. Ma Silvia presto si rende conto che non ha gli strumenti per questa rivalsa. Se si guarda attorno, la situazione della sua famiglia rappresenta la normalità.

“Essendo cresciuta con questo imprinting culturale dell’avere debiti per poter arrivare a fine mese, la gestione dei miei primi stipendi non è stata proprio delle migliori.”

Per anni si autoconvince che all’origine della sua incapacità di creare ricchezza ci sia la situazione socioeconomica del Paese d’origine.

«Eravamo tutti allo stesso livello. Non c’era nel mio circondario una famiglia che spiccava per una gestione dei soldi migliore. Quando sono andata a vivere da sola, però, ho scoperto finalmente come si crea un cuscinetto di emergenza e ho capito che si trattava di una mancata educazione finanziaria presente in Romania e nella mia famiglia in particolare».

In Italia ci arriva per caso a 21 anni. Il suo obiettivo era di trovare un lavoro stagionale come cameriera o come commessa, per potersi pagare gli studi universitari in Romania. Ma con sua grande sorpresa viene assunta in hotel come receptionist. «Guadagnavo 1100 euro al mese, più della somma degli stipendi della mia famiglia». Così decide di rimanere in Italia e di continuare gli studi in Romania. «Alla fine ce l’ho fatta pure a laurearmi ma mi sono trovata nella stessa condizione di prima. Neolaureata, con uno stipendio, ma zero risparmi».

Silvia è finita dentro quella che lei chiama la catena della povertà.

“Il guadagno era come sabbia tra le dita. Mi ritrovavo senza nulla. Mentalmente era come essere nella Romania degli anni 90, dove tutti gli sforzi erano finalizzati al nulla più totale.”

Con quei 1100 euro al mese, in realtà, Silvia riesce a pagarsi gli studi, a pagare l’affitto in Italia, a pagare i viaggi andata e ritorno per fare gli esami in Romania, riesce a togliersi qualche piccolo sfizio e soprattutto ad aiutare la sua famiglia con 200 o 300 euro al mese. «Sì questo è un retaggio culturale del mio Paese dove i figli sono obbligati moralmente ad aiutare i propri genitori ma non perché ci sia un obbligo vero e proprio. Nessuno viene a chiedertelo. È che noti una differenza di status sociale, di potere di acquisto…».

Eppure la sopravvivenza non le basta. «Non era quello che desideravo per me. Continuavo questa battaglia con il passato promettendomi ogni anno di spezzare la catena della povertà che per me era riuscire a godermi la vita in una maniera sana senza il retaggio culturale di una gestione cattiva dei soldi. E non capivo cosa potevo fare di più. E non era cercare un altro lavoro, cosa che ho anche fatto. La verità è che se non analizzi come gestisci le tue finanze, nulla cambia».

A peggiorare le cose si aggiunge l’assenza di informazioni a livello fiscale: una complessità vissuta dalla maggior parte di coloro che si trasferiscono in Italia.

“È molto difficile per chi arriva da fuori capire come comportarsi in maniera corretta, cos’è una dichiarazione dei redditi, cos’è un Irpef, come aprire un conto corrente. All’alba dei 25, 26 anni mi sono dovuta scontrare con quella che era ignoranza.”

Ma è proprio la necessità di farsi aiutare da un commercialista e dagli amici italiani, che la porta pian piano a prendere consapevolezza. «Ho deciso di informarmi, di capire e di accettare il fatto che stessi sbagliando qualcosa. È fondamentale condividere il proprio vissuto, senza vergognarsi, senza rimuginare su quelli che sono stati i nostri errori perché, ahimè, senza quelli uno non cresce. Il confronto tra donne, poi, aiuta tantissimo. Ed è un lavoro continuo perché non ci arriviamo mai alla perfezione».

Se le domandi quando ha spezzato la catena della povertà lei ti risponde: «Tre, quattro anni fa, quando ho avuto quei 100 euro in più al mese sul conto corrente».

“Quei primi 100 euro risparmiati erano qualcosa di totalmente inusuale. Ero abituata a vivere da stipendio a stipendio. E invece quel gruzzoletto di soldi, che poi sono aumentati, mi hanno dato la sicurezza di potercela fare da sola.”

Oggi Silvia è responsabile formazione in campo estetico per un’azienda beauty. Nove anni fa ha scoperto una grande passione per il make up ed è riuscita a trovare un buon lavoro nel settore. Al posto fisso, però, ha sempre affiancato qualche lavoretto extra come vendita di prodotti cosmetici: «Ho sempre cercato di diversificare il rischio, di non avere un’unica e sola entrata economica perché come abbiamo visto negli ultimi due anni la vita ci sorprende sempre».

Per lungo tempo, non si è neppure posta il tema se essere dipendente o libera professionista.

“Ho inseguito per tanti anni l’essere una donna in carriera, avere un bigliettino con su scritto manager. Ho capito tardi, all’alba dei 35 anni, che per me non era quella la vera felicità. Il mio principale valore è la libertà.”

Decide così di avviare un’attività come libera professionista, ma di portarla avanti parallelamente a quella da dipendente, senza i colpi di testa che hanno segnato così tanto la sua giovinezza.

Al momento Silvia è in una fase di transizione: «Collaboro ancora con la mia azienda e nelle mie entrate prevale la parte da lavoro dipendente, rispetto a quella da libera professionista. Siamo a un 60-40%. Ma conto di fare lo switch a fine anno. Le mie occhiaie ne risentiranno, dovrò investire tantissimo in un buon correttore».

La sua intenzione, però, è di fare il grande salto a imprenditrice: «Perché io non mi ci vedo sulla lunga con la mia valigia e i miei trucchi ad andare in giro per eventi, sfilate, matrimoni. Mi piacerebbe moltissimo trasformare il mio piccolo business in uno scalabile dove non ci sia bisogno della mia presenza per poter fatturare».

Il tempo libero di Silvia è tutto dedicato allo sviluppo di progetti che le permettano, una volta mollato il reddito fisso, di avere in mano un business scalabile. «Io penso che nel mio campo vada abbinato un lavoro di vendita di un prodotto non solo di un servizio per riuscire a fare il grande passo. E io dedico tutte le mie energie al mio sogno, proprio per arrivare all’alba dei 50-60 anni e riuscire a godere di una vecchiaia tranquilla senza dover pensare alla pensione. Per fortuna ho un compagno che mi supporta tantissimo in questo».

Una delle cose più difficili da imparare nel lasciare il posto fisso è darsi il giusto valore.

«Mi sono chiesta più e più volte come farcela da libera professionista. Di sicuro chiedere poco e lavorare tanto non è il mio modello di business. Penso che ogni persona dovrebbe fare un lavoro di personal branding e di business plan su base annuale per capire esattamente come creare il proprio prezzo di partenza».

“Se manca la sicurezza, l’autostima si incorre in un loop continuo di “oddio non sono abbastanza” “oddio il lavoro imprenditoriale non fa per me” “la partita Iva non va bene” e forse è questo il motivo per cui la partita Iva viene tanto demonizzata in Italia.”

Silvia in questo si è fatta aiutare da una grande amica e mentore che prima di lei ha fatto il salto verso il lavoro indipendente. «Ci siamo sedute a tavolino e ho capito fin dall’inizio, nonostante la mia poca esperienza in campo make up, che mi volevo posizionare su una fascia medio alta di clientela. Ma per fare questo dovevo dare dei servizi medio alti per cui ho lavorato tantissimo sulla mia formazione, che è continua, sul modo in cui comunico con la mia clientela. Il mio obiettivo finale è far riconoscere alle donne la propria bellezza naturale, che sta al di là di un semplice trucco. È un lavoro di consapevolezza e terapia della bellezza».

Oggi Silvia è diventata una grandissima risparmiatrice. Una parte di questi risparmi li reinveste proprio nella sua attività: attrezzature, corsi e qualcosa che potrebbe sembrare futile ma futile non è.

“Il mio marchio di fabbrica sono i capelli, il mio pixie cut, la gente mi riconosce anche per quello, e non ti nascondo il fatto che è abbastanza impegnativo a livello di tempo e di denaro: circa 300-400 euro al mese. Ma non lo vedo come un qualcosa di frivolo: è un investimento nella mia immagine.”

Il resto dei risparmi sono per i progetti futuri: «Comprare una casa è un qualcosa che mi sono prefissata già da anni. Per il resto, mi piacerebbe tanto ricominciare a viaggiare».

Ma i soldi che riesce a mettere da parte non li lascia fermi in banca.

«Cerco di fare dei piccoli investimenti che generino piccoli ricavi passivi. Il risparmio accantonato in un conto bancario statico è solo un costo alla fine dell’anno. E in questo mi sono scontrata con la mentalità italiana del risparmio che approvo tantissimo ma fino a un certo punto perché l’unico strumento secondo me per riuscire a diventare un po’ più ricchi o più stabili è l’investimento non tanto il risparmio».

Silvia è profondamente consapevole di quanto siano stati importanti gli incontri, le persone e le conversazioni sui soldi nel guidarla in questa parabola di cambiamento.

Così adesso cerca di fare lo stesso per altre donne. «Quello che ho voluto restituire alla comunità è il proteggere e incoraggiare l’imprenditoria femminile creando appunto la nostra bellissima associazione culturale, Qualia, hub di eventi e progetti con la finalità di sostenere e dare strumenti utili e di confronto alle piccole imprenditrici italiane. È un ritorno a livello di comunità».

“Senza un’adeguata educazione finanziaria la libertà non arriva mai, indipendentemente dalla scelta del lavoro dipendente o autonomo.”

Condividi