Così sono uscita dalla trappola del lavoro dei sogni

Un posto fisso nell’editoria, a contatto con libri, scrittori e colleghe divenute amiche. Uno status invidiato da molti e che rende orgogliosi parenti e amici. Fino al giorno in cui Valentina inizia a parlare di soldi con le sue amiche e si accorge che è pagata troppo poco per la professionalità che ha e per i ritmi che le vengono richiesti.

Valentina Aversano ha 39 anni e vive a Roma. Un anno e mezzo fa ha lasciato il posto fisso in una casa editrice per iniziare un’attività da freelance nel campo della comunicazione digitale e della formazione. Quello che ha lasciato era il classico lavoro dei sogni. Lo aveva trovato verso i trent’anni, dopo una laurea in scienze della comunicazione e dopo una prima esperienza in un magazine digitale per 800 euro al mese, full time. La casa editrice le aveva offerto un contratto di apprendistato di 1000 euro al mese per gestire la comunicazione sul web. 

«Mi sembravano tantissimi soldi», racconta. «Con il contratto a tempo indeterminato sono passata a 1300 euro, ma poi non ci sono stati altri scatti economici. Considera che io lavoravo in un'azienda dove non avevo buoni pasto, non avevo straordinari pagati. Alcune spese me le pagavo io, come per esempio i taxi. E questa cosa mi è andata bene per tantissimo tempo, perché facevo qualcosa che amavo».

Ma fare qualcosa che amavo a un certo punto mi ha fregato. Mi sentivo talmente privilegiata e fortunata a stare in quel contesto che dicevo: guadagno due soldi, ma va bene così.

Il tempo passa. La vita di Valentina cambia e cambiano anche i suoi desideri. Nel giugno del 2018 partorisce la sua prima figlia. Un parto difficile, prematuro, dopo il quale decide di prendersi un anno di maternità. Per la prima volta, scende dalla ruota e si guarda da fuori. I primi taccuini dove appunta di voler cambiare lavoro risalgono a quel periodo.

«La prima figlia mi ha fatto maturare una visione di distacco dal lavoro. Ho iniziato a dare un peso alla mia vita privata, che non voleva dire fare la mamma e basta».

Anzi, la maternità è stata un detonatore per darmi spazio. Paradossalmente, quanto più il tempo diminuiva tanto più aumentava il valore che io davo a me stessa.

Tornata al lavoro, Valentina chiede il part-time per conciliare la vita familiare con una vita lavorativa, che fino a quel momento le aveva assorbito sabati, domeniche e festività. 

«Mi è stata proposta una riduzione dello stipendio del 30%, io pensavo fosse l’unica opzione possibile per cui ho accettato. In realtà la mia professionalità era la stessa, anzi era aumentata: erano quasi 10 anni che lavoravo lì. Non sapevo, in quel momento, che non era una questione di ore ma di capacità, di professionalità. Ed è così che ho iniziato a sentire di  impiegare il mio tempo in modo sbagliato per pochi soldi».

A quel punto succede qualcosa di nuovo. Un argomento che non è mai stato oggetto di conversazione, inizia a diventarlo.

Abbiamo iniziato a parlare di soldi con le mie amiche più strette quando abbiamo iniziato a scricchiolare. Ma tu quanto prendi? A che livello sei inquadrata? Abbiamo scoperto cose che erano sotto i nostri occhi da sempre ma noi non le volevamo vedere

Valentina, però, ha in mente di fare un altro figlio. Mantenere il suo posto fisso le sembra per ora la scelta più responsabile. Non può immaginare che di lì a poco tutto verrà messo in discussione da un avvenimento imprevisto. La pandemia la sorprende infelice sul lavoro e alla ricerca di una seconda gravidanza nella vita privata. 

«Il lockdown mi ha fatto vedere il lato del mio lavoro che non riuscivo a vedere perché ero immersa in un ambiente che mi piaceva con colleghe che erano diventate mie amiche. Però a un certo punto questo bacino di strategie di sopravvivenza si è esaurito. Con il lockdown mi sono ritrovata a casa, a lavorare da sola, con un bambino piccolo. Ho iniziato a stare così male, mentalmente e fisicamente, avevo un senso di rifiuto… Ho iniziato a piangere durante le riunioni. Sarà che seguivo una terapia ormonale che estremizzava questo mio malessere. Fatto sta che a un certo punto ho detto basta».   

È il luglio 2021. Nella stessa settimana in cui si dimette, Valentina scopre di essere incinta del suo secondo figlio. Per il futuro professionale non ha un business plan, tanto è stata improvvisa la decisione. 

«Mi sono detta: “Io ci provo. Se non arriveranno clienti, andrò a fare qualcos’altro, mi cercherò un lavoro da commessa, da segretaria”». 

Non avevo bisogno di mantenere uno status. Considera che dall’editoria non si dimette nessuno se non per cambiare casa editrice. Perché quello che non hai in ambito economico ti sembra di riceverlo in termini di status.

Nel frattempo però come avrebbero fatto a pagare il mutuo e le spese quotidiane? «Quando ho deciso di rimettermi, sapevo di poter contare su 9 anni di Tfr. Tra uno stipendio mancante e un corso che avevo completato, l’azienda mi doveva in tutto 12mila euro. Quello sarebbe stato il mio supporto economico per non passare dallo stipendio a nulla».

Suo marito Andrea fa l’ingegnere, lavora in un’azienda di informatica. Ha sempre guadagnato più di lei, soprattutto è riuscito ad avere una crescita continua nel tempo, sia cambiando azienda sia con promozioni a ruoli di responsabilità.  

«Per molto tempo non ho proprio ragionato sugli scatti di anzianità, non ho imparato a interpretare bene la busta paga, non capivo l’importanza di dover crescere economicamente. Però non mi sentivo schiacciata rispetto a mio marito perché ero in un ambiente in cui tutti vengono pagati poco».

Grazia alla cultura tradizionale dei buoni fruttiferi postali, Valentina e Andrea hanno un piccolo fondo di emergenza a cui sono ricorsi per esempio quando hanno subito il furto dell’auto. Ma di risparmi sul conto non ce ne sono. 

«Non siamo mai stati dei grandi risparmiatori. Con i nostri stipendi non abbiamo mai messo soldi da parte. Siamo anche abituati a stare sul filo del rasoio tra uno stipendio e l’altro».

Per  vivere a Roma con due bambini, pagare il mutuo, fare qualche viaggetto e coltivare le loro passioni: la lettura e il cibo, Valentina e Andrea hanno bisogno di due stipendi. Eppure, quando Valentina lascia il lavoro, il commento che sente più spesso è stupefacente: 

I miei genitori, i colleghi, i capi, tutti mi hanno detto che se mi dimettevo era perché Andrea guadagna bene. Io l’ho detto che andavo via perché sapevo di non poter crescere economicamente. Però intorno a me c’è stato questo paternalismo espresso all’ennesima potenza.

È il caso di fare un salto indietro nel tempo. Valentina è nata a Benevento da un papà imprenditore e una mamma dipendente pubblica.

«A casa mia c’è sempre stato il mito del posto fisso, nonostante mio padre si fosse fatto da sé. Io vengo da una cultura meridionale dove le famiglie sistemano i figli. I miei genitori non volevano trovarci un'occupazione però volevano che noi fossimo sistemati avessimo una tranquillità economica».

Suo padre era il secondo di sette figli.  Il fratello grande era stato avviato alla professione di medico e lui, primo maschio utile, fin da bambino aveva aiutato il padre nel suo negozio di bilance. «Questo modello ce l'ha voluto risparmiare. Lui e mia madre non volevano che noi facessimo dei lavoretti extra: “Fino a che studiate ci pensiamo noi”».

Valentina, un po’ per questa sua giovinezza “privilegiata” come la definisce lei stessa, e un po’ perché è entrata nel mondo del lavoro da dipendente, non aveva mai ragionato sul valore economico dei suoi studi, delle sue esperienze, del suo aggiornamento. L’inizio dell’attività da freelance è come un bagno di consapevolezza.

«Quest’attività in proprio mi fa rendere conto di quanto sia più semplice dare un valore al mio lavoro e guadagnare di più lavorando di meno. Lì dovevo lavorare 32 giorni su 31, 24 ore su 24 per portare a casa 1000 euro, adesso con un impegno diverso guadagno gli stessi soldi ma anche di più e con una salute mentale e una flessibilità del lavoro completamente diversa. Prima mi sentivo con delle capacità, delle abilità che avevo maturato nel tempo, a cui però non corrispondeva un ritorno economico. Adesso questa barriera si è abbattuta. Ci sto ancora lavorando perché sono all'inizio. Ancora ho un problema a fare preventivi, mi chiedo sempre se sarò in grado di fare ciò per cui mi faccio pagare. Però mi sembra di aver fatto uno scatto innanzitutto mentale».  

Con l’inizio dell’attività in proprio cambia anche la gestione dei soldi all’interno della famiglia.

«Prima avevamo un conto comune con mio marito dove confluivano gli stipendi e da lì si tirava via il mutuo, i soldi per le bollette… Poi avevamo il conto digitale con le piccole spese personali.

Adesso io ho il conto del lavoro. E il conto del lavoro è bellissimo. Tra il bonifico dello stipendio e la fattura… La fattura mi dà un orgoglio infinito. Mi sento adulta veramente. Ho 39 anni, tra qualche mese 40: una maturità sbocciata tardi!

C’è un pericolo insito nella dinamica nuova che si è creata tra Valentina e Andrea: lei professionista freelance, lui dipendente in carriera. Il pericolo è che lei diventi il genitore e il partner di default, quello che deve occuparsi di tutte le emergenze. Ma di questo Valentina non si preoccupa. A costruire un modello di famiglia in cui il carico è equamente diviso ha lavorato fin dal primo giorno di convivenza. Adesso ne raccoglie i frutti. 

«Nella nostra famiglia, io non cucino perché la vera passione ce l'ha lui. O meglio io l’ho addestrato ad avere questa passione, perché ho capito che c'era un talento e l’ho aiutato a esprimerlo con corsi di cucina, libri di cucina, trasmissioni di cucina, uscite al ristorante. Per me è un’esecuzione mentre a lui piace tantissimo cucinare»

A parte la classica divisione tra chi cucina e chi fa il resto, Valentina e Andrea si comportano come una squadra proprio con l’agenda lavorativa. «Ci gestiamo le videocall in modo alternato, non ce le mettiamo nella stessa ora. Adesso per esempio lui è di là con il bambino. La fatica è che questa organizzazione va ridiscussa giorno per giorno».

Valentina ha una chiara idea di cosa sia la ricchezza: «Poter continuare ad andare in libreria e non guardare lo scontrino».

Questo ha imparato nella sua infanzia beneventana. «Non si badava a spese per quanto riguardava i consumi culturali: si andava spesso al cinema, a teatro. Ci si comprava l’abbonamento ma ci si portava dietro anche i figli di amici o le persone del palazzo e si pagava il biglietto a tutti. Su un’altra cosa non si badava a spese ed erano i libri. Io sono cresciuto in mezzo ai libri. Mi portavano in libreria e mi dicevano: “Comprati quello che vuoi”». Adesso che lo dico ad alta voce mi rendo conto di quanto sia stata un’infanzia privilegiata».  

La scelta di lasciare il posto fisso per ora non ha intaccato nemmeno un po’ la ricchezza di Valentina.  Finché non dovrà rinunciare all’acquisto di un libro, Valentina sarà una persona straordinariamente ricca. 

Sono un po’ il grande Gatsby: su alcune voci di spesa ripeto gli stessi comportamenti che ho visto nella mia infanzia. Adesso i miei figli hanno più libri di me.  Ma sono cose per le quali non ho la percezione di spendere tanti soldi. Sono soldi benedetti.

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