Il debito pubblico, spiegato bene
Il debito pubblico italiano ha raggiunto a marzo un nuovo record, ma le agenzie di rating sembrano confermare al nostro Paese un buon grado di affidabilità. Intanto i tassi di interesse dei titoli di Stato sono più appetibili rispetto a qualche anno fa, e le emissioni registrano il tutto esaurito in pochi giorni. Ma perché il debito pubblico continua a preoccupare, e che legame c’è con i titoli? Lo spieghiamo in questo articolo, a partire dalla definizione di debito pubblico.
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di Giorgia Nardelli
Giornalista esperta di diritti dei consumatori e finanza personale.

3.033,9 miliardi di euro. A marzo 2025 il debito italiano ha raggiunto un nuovo massimo storico. Un anno fa, nello stesso mese, era di 2.900,4 miliardi di euro. Ma cosa significa questo dato per noi italiani? E perché un debito pubblico in crescita desta così tanta preoccupazione, quali conseguenze potrebbero esserci? Abbiamo cercato di capirlo con Francesco Scinetti, junior economist dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano.
Cosa si intende per debito pubblico
Il debito pubblico, come dice la parola stessa, è il debito che uno Stato contrae con altri soggetti per finanziare la spesa. «Uno Stato vi ricorre quando non ha una capacità di spesa sufficiente, in altre parole non riesce a raccogliere dal gettito fiscale le risorse necessarie per finanziare i suoi interventi, e di conseguenza ricorre a dei prestiti», spiega Scinetti. «In altre parole, fa ciò che facciamo noi quando dobbiamo comprare una casa o dobbiamo finanziare un’attività, ma non abbiamo abbastanza liquidità».
La differenze, prosegue il ricercatore, è che mentre noi ci rechiamo in banca, lo Stato emette titoli di debito pubblico sul mercato, dove vengono acquistati da investitori istituzionali, come le banche centrali, piccoli risparmiatori, fondi, banche, e altri player. Attraverso il collocamento di titoli – nel caso dell’Italia, per esempio, i popolarissimi Bot e Btp -, riceve dei soldi in prestito, in cambio di un tasso di interesse, che corrisponderà sotto forma di cedole periodiche (quelle che il piccolo risparmiatore che acquista Btp riceve mensilmente).
Perché il debito pubblico preoccupa
In sé, avere del debito pubblico non è preoccupante, praticamente tutti gli Stati contraggono debiti per finanziare la spesa pubblica. «Quello che conta è in realtà il debito rapportato alla ricchezza prodotta, il Pil. Se la ricchezza prodotta cresce e registra aumenti annuali, l’aumento del debito non dovrebbe teoricamente generare grande apprensione. È un po’ come per le imprese: se una ditta contrae debiti per 100.000 euro, ma questo finanziamento le permette di ottenere 200.000 euro di utili, in linea di massima significa che la situazione è sotto controllo, perché l’azienda produce comunque ricchezza», continua Scinetti.
Il problema sorge quando lo squilibrio tra i due fattori è grande, e la ricchezza non aumenta. «L’Italia, purtroppo, durante il periodo del Covid ha raggiunto la percentuale massima di debito pubblico sul Pil, intorno al 155%. Ora siamo scesi di più di 20 punti percentuale, ma restiamo tra i peggiori d’Europa», spiega Scinetti. Secondo i dati del Centro Alti studi europei dell’Università di Pavia, il rapporto tra debito italiano e Pil era a marzo 2025 al 135,3%, il secondo peggiore dopo la Grecia, contro una media dei Paesi dell’Eurozona dell’87,4%. La Francia, che ci segue in classifica, è al 113%, più di 20 punti sotto di noi.
I rischi finanziari di un debito in crescita
Non solo. «Il problema si pone quando alla scadenza dei titoli, il momento in cui lo Stato dovrebbe restituire gli importi presi in prestito, emette nuove obbligazioni, rinnova quindi il debito. Se questo meccanismo viene esasperato, gli investitori potrebbero perdere fiducia, e, a parità di tassi, preferire obbligazioni di altri Paesi ritenuti più solidi o prudenti».
Tra l’altro il rischio, quando un Paese viene percepito come meno affidabile dai mercati, è di dover applicare un tasso di interesse più alto ai suoi titoli di debito, un fattore che incide non poco sui conti pubblici. «Pagare la media dell’1% o del 3,5% di interesse sui titoli di debito fa una bella differenza, se parliamo di 3.000 miliardi di debiti», dice l’economista.
Perché l’Italia non riesce a uscire dalla spirale del debito
Strutturalmente, l’Italia non è in grado di coprire la spesa pubblica con il gettito fiscale, per una serie di ragioni che vanno dal sistema pensionistico inefficiente (le contribuzioni versate non bastano a coprire la spesa per le pensioni per cui lo Stato deve intervenire attingendo a risorse proprie), a una spesa sanitaria elevatissima, un’evasione fiscale endemica – poco più di 80 miliardi all’anno -, e altre uscite dovute a bonus e incentivi.
«Attualmente l’Italia, per fare un esempio immediato, è come una famiglia dove entrano 3.000 euro al mese, e ne escono 4.000. Per uscire davvero da questa situazione, servirebbe una politica di contenimento della spesa pubblica, cosa che da anni ci si ripropone di fare, ma che da anni tutti i governi eludono. Le azioni restrittive non pagano a livello elettorale, e il Paese ne sta pagando il prezzo», riflette il ricercatore.
Cosa comporta per i risparmiatori italiani avere un alto debito pubblico
Paradossalmente, sembrerebbe che i piccoli risparmiatori abbiano un vantaggio da questa situazione: se il grado di affidabilità come debitore del nostro Paese, scende, i tassi di interesse salgono, e chi acquista nuovi titoli di debito pubblico può spuntare interessi migliori. «È necessario però riflettere su alcuni aspetti», chiosa Scinetti.
«Un tasso di interesse troppo alto su un prodotto finanziario non è un buon segnale. Indica che quello Stato non è affidabile sulla restituzione del capitale, e non lo è soprattutto per gli investitori istituzionali. Non è il caso dell’Italia, ma se pensiamo che oggi i tassi di interesse di uno stato come la Grecia, reduce da un mancato default solo 15 anni fa, sono più bassi di quelli italiani, qualcosa ci dicono. Il rendimento non è l’unico fattore da tenere d’occhio. Sarà pure che l’agenzia Moody’s ha confermato il rating Baa3, ma ricordiamo che i titoli Usa, che sono stati declassati di recente, sono in “classe” AA1».