Con quello che guadagno, ridistribuisco ricchezza

Monica Penitenti ha quasi 60 anni e una carriera da Mary Poppins dei ricchi. Entra in case da sogno e ci sta per tre, sei mesi al massimo per occuparsi dei piccoli appena nati. Poi prende il vento dell’Est e riparte. Come sia arrivata a fare questa vita, è una storia da romanzo. Nata e cresciuta a Gravellona Toce in una famiglia poverissima, da piccola viveva mangiando quello che il bosco e la terra le donava. A 15 anni, trasferitasi al Sud, lascia la scuola e inizia a lavorare, per non smettere più, fino a quando rimane incinta e decide di restare a casa per occuparsi delle sue figlie. Lei che si guadagnava da vivere da quando era ragazzina, per una volta si concede il privilegio di scegliere. «Poi però, la vita si diverte. Mio marito è morto e mi sono ritrovata a gestire la sua azienda». Così, improvvisamente, nel momento del lutto più doloroso, Monica è costretta a rimettere i soldi al primo posto. Gestisce per tre anni l’azienda, per poi decidere di lasciarla ai soci e arrangiarsi, come aveva fatto da ragazzina. A un certo punto, dopo anni di fatica e confusione, trova il coraggio di chiedersi cosa vuole realmente dalla propria vita, e capisce che il suo progetto è lavorare “con la parte migliore dell’umanità”: i bambini. Si rimette a studiare e nel giro di pochi mesi diventa una tata richiestissima dalle famiglie più potenti del mondo. Guadagna 350 sterline al giorno, e con quei soldi ha deciso di ridare indietro tutto ciò che ha avuto, aiutando le persone che stanno vivendo situazioni che anche lei si è trovata ad affrontare.

Ascolta il podcast della puntata:

«Sono stata a Ginevra, Porto, Monaco, Saint Tropez, Stadt in Svizzera, a Meribel in Francia, in montagna. Poi Dubai, le Seychelles e Oslo. Sto girando il mondo, divento la tata delle famiglie che si possono permettere di pagarmi tanto quanto io chiedo. 350 sterline al giorno. E mi illudo così un po’ di cambiare il mondo: un bambino una volta, verosimilmente ai bambini che diventeranno potenti nella loro vita perché figli di famiglie molto molto ricche. Mettere nella loro vita modi gentili e non servili, come sono abituate queste famiglie ad avere più persone intorno. Se invece l'approccio è diverso, i bambini imparano la gentilezza, la condivisione e verosimilmente io mi illudo che possano diventare degli adulti migliori».

Monica Penitenti ha quasi 60 anni e una carriera da Mary Poppins dei ricchi. Entra in case da sogno e ci sta per tre mesi, sei mesi al massimo. Poi prende il vento dell’Est e riparte. Come sia arrivata a fare questa vita, è una storia da romanzo. Per cui mettiti comoda (o comodo).

Un’infanzia poverissima

«La cruda verità è che ho avuto un'infanzia poverissima. Sono la terza di quattro fratelli. Mio padre era operaio e mia madre parrucchiera. Ma non ce la facevano. Io non mi ricordo quanto guadagnassero, ma sicuramente quello che guadagnavano non bastava. Per cui, noi abbiamo anche sofferto la fame: ci sono stati periodi dell'infanzia in cui magari andavamo a fare la spesa grossa il giorno dello stipendio. E poi, più o meno in una settimana non c'era quasi più niente da mangiare. Molto spesso se si arrivava ad avere qualche spaghetto nel piatto con un pezzo di burro era già tanto. Io e i miei fratelli alla povera Netta, che era la signora che aveva il negozio di alimentari sotto casa, più di una volta abbiamo fregato le merendine, non per sfizio ma perché avevamo fame e quindi mangiavano quello che potevamo». 

Monica nasce e cresce a Gravellona Toce, che in quegli anni era stata meta di una fortissima immigrazione da parte delle persone dal sud e si era trasformata in una piccola città. Le case fatiscenti del vecchio borgo del paese erano state tutte affittate ai meridionali che arrivavano senza soldi, e vivevano in condizioni poverissime.

La sensazione della fame, quindi di non avere la merenda a scuola o di andare a casa e “forse c’è da mangiare, forse no”, ce l’avevano un po’ tutti. Quindi in realtà io allora non la vivevo come una cosa stigmatizzate, cosa che è successa dopo.

Monica e i suoi fratelli, come gran parte dei bambini poveri di Gravellona Toce, imparano fin da piccoli a procacciarsi il cibo.

«Noi siamo stati abituati ad andare nelle montagne vicine a cercare cosa il bosco desse da mangiare: funghi, castagne, more, lamponi, erbe selvatiche. Noi ci attaccavano al panevino, che è un’erba molto buona e la si strappava e la si succhiava dalla base perché era zuccherina. Questo ha fatto in modo che io imparassi da subito a procacciarmi del cibo. Nonostante la fame, ce la siamo cavata. Ci facevamo bastare il latte che compravamo a credito dalla Netta: una volta si facevano i libretti dove si segnava quello che si lasciava a debito. Poi c’era un’amica di mia mamma che aveva le galline e ci passava le uova, ogni tanto. La carne la mangiava solo mio padre una volta al mese. Quando si faceva la spesa, la comprava per lui, e solo lui la mangiava; perché lui doveva andare a lavorare e noi no. Questo fino a che poi i miei si sono separati, mio padre è andato via».

Monica ha 11 anni quando il padre lascia la famiglia. Dopo qualche mese lo seguono a Caserta, dove la madre prova a far funzionare le cose ma si separano di nuovo. Questa volta per sempre. Restano però tutti a vivere al Sud, dove la povertà ha un sapore completamente diverso. 

«Quando andai a vivere a Cellole, questo paesello sperduto sulla costa campana, imparai che basta chiedere e dare qualcosa in cambio. Ma che nessuno te lo chiede in cambio quel qualcosa. Io ho imparato una generosità che non mi è mai stata insegnata da piccola perché noi non avevamo mai niente da dare agli altri. Ma a Cellole ho imparato che c’è sempre qualcuno che ti offre il pane quando esce dal forno. E se un altro tira su quattro cavolfiori, uno è per te che sei suo vicino di casa».

Se vivi in città non puoi mangiare i cartelli pubblicitari. Se vivi in città, non hai dove andare a raccogliere le erbe. Se abiti in città e intorno a te ci sono solo negozi, per prendere le cose devi avere dei soldi, e se non li hai, fai la fame. Dove invece c’è la terra, puoi mangiare. Queste dinamiche hanno inciso profondamente su tutta la mia percezione dell’economia.

La fame di sapere

Monica ama profondamente studiare, ma frequenta solo le scuole dell’obbligo, fermandosi in terza liceo. 

«I miei genitori, quando si sono separati, si sono dimessi dal ruolo di genitori. Toccava arrangiarsi. Quindi io ho cominciato a lavorare avevo 13 anni e non ho mai smesso. Ho cominciato a lavorare da un dentista, ero assistente di poltrona a 14 anni. Durante l’estate lavoravo in una boutique di scarpe nella vicina Baia Domizia e mi hanno dato in gestione un negozio di scarpe. Ognuno cercava di sopravvivere per sé, per cui studiare era secondario, ma soprattutto non ho mai avuto i soldi per comprare i libri. Durante le lezioni cercavo di stare attenta e di apprendere il più possibile, ma nel momento in cui loro ci assegnavano delle lezioni da studiare in autonomia sui testi, io ero fregata. E quindi in terza sono stata bocciata, mi sono ritirata e nonostante amici e amiche si fossero prodigati in tutti i modi per farmi andare avanti così, io avevo proprio mollato la catena, non volevo più».

Monica a quel punto fa ogni sorta di lavoro. La fame di cultura, però, non l’abbandona. E trova il modo di soddisfarla.

«Ho avuto la fortuna di incontrare, e la capacità di coltivare relazioni con persone buone, valide. Io ho sempre cercato persone che sapessero molto più di me. Ho tuttora un’amica che io adoravo perché era un pezzo di scienza, nel senso che io lo vedevo studiare tantissimo, faceva il liceo classico. L’ho seguita dappertutto, mi portava a qualsiasi lezione universitaria… io che non avevo neanche finito il liceo».

Questa capacità di circondarsi di persone anche molto più intelligenti di me, più affamate di me, ha spostato proprio la mia prospettiva. Il cibo bene o male mi veniva offerto sempre da qualcuno, quindi non era più una preoccupazione. A quel punto la preoccupazione era la fame di cultura.

«I libri li leggevo a scrocco. Ho avuto sempre amici che me li prestavano oppure li prendevo in biblioteca. Una volta, quando sono andata in Piemonte a lavorare, ho cominciato a comprarmi dei Comic Arts, fumetti ricercatissimi. Mi ricordo ancora la sensazione stranissima, che non conoscevo, di essermi comprata una cosa per me, che non era né da mangiare né da vestire. Era una sensazione vicina al senso di colpa. Però, che cavolo, avevo vent’anni».

Quello è il momento in cui Monica per la prima volta esce dalla condizione di precarietà perché decide di non dare più i soldi a sua madre. Ha 21 anni e ha trovato lavoro in Piemonte, in un albergo sul lago d’Orta, dove le paghe sono migliori.

«Una volta si usava andare a vivere negli alberghi dove si lavorava. Ma io ero stufa di quella condizione, così mi sono affittata una casa e quella sensazione di pagarmi l’affitto da sola, e di non pagare l’affitto a mia madre e a mio fratello, mi ha dato una grossa sensazione di potenza».

Anni dopo, quando Monica va a vivere con il suo migliore amico, che nel frattempo è diventato suo marito, la relazione che ha con i soldi cambia ancora una volta. Lei che si guadagna da vivere da quando ha 13 anni, decide di restare a casa a crescere le figlie.

«Lo so che si fa fatica a comprenderla questa cosa perché la comunione dei beni generalmente sono soldi del marito. Cioè, se il marito ha 5 e la moglie ha 3 o 4, si mette tutto insieme, ma il marito continua ad avere 5 e la moglie continua ad avere 3 o 4, di solito. Nel nostro caso non era così. I suoi 5 erano di tutti e due totalmente. Quindi anche autonomamente potevo decidere le spese e qualsiasi altra cosa. Quindi non ho mai avuto la sensazione di precarietà o di non essere autonoma. A lui piaceva cosa i soldi potevano procurare e quindi si affidava totalmente a me. Potevo disporre come volevo, ci siamo divertiti, abbiamo portato le bambine ovunque, abbiamo viaggiato tantissimo. Compravamo tantissimi libri».

La perdita di ogni certezza

«Però poi la vita, si diverte. Nel giro di pochi giorni Pasquale è morto e mi sono trovata a gestire la sua azienda perché i suoi soci mi hanno chiesto di prendere il suo posto. Ma non era il mio lavoro. Di giorno facevo quello e la notte studiavo perché non avevo mai fatto quel lavoro».

Improvvisamente, nel momento del lutto più doloroso, Monica è costretta a rimettere i soldi al primo posto.

«Se volevo dare da mangiare alle mie figlie, l’unica cosa che potevo fare era accettare la proposta dei soci di mio marito andare e prendere il suo posto. Non andavo praticamente mai via dall’ufficio».

Andavo a casa a dar da mangiare alle ragazze e cercavo in qualche modo di recuperare i rapporti con loro. Ognuna con il proprio lutto da elaborare, ognuna con il proprio mondo che si apriva, con le proprie consapevolezze che piano piano arrivavano… e io non c’ero.

Le cose vanno avanti così per tre anni, fino al giorno in cui Monica decide di lasciare l’azienda ai soci di suo marito, scoprendo le tracce di innumerevoli irregolarità che erano state commesse negli anni. 

«Ho lasciato l’azienda in mano a loro senza prendere un soldo ma senza neanche avere tutti i debiti che invece loro dopo sei mesi si sono trovati a dover affrontare».

A quel punto Monica si ritrova in una situazione drammatica come quella dell’infanzia. 

«Ci sono stati dei giorni di disperazione totale. Ho cominciato a fare il pane in casa e lo vendevo. Ho fatto i biscotti e li vendevo. Cucivo cose piccole e le vendevo. Ho fatto correzione di bozze per varie antologie di poesia, avendo un amico fraterno che era un editore».

Monica ha tirato avanti così per un paio di anni, tornando a fare stagioni nei ristoranti, coinvolgendo le sue figlie, fino a che il suo corpo le ha detto basta.

La scoperta dei propri sogni

«Lì mi sono fatta la domanda giusta e ho avuto il coraggio di chiedermi: “ma tu veramente se potessi scegliere nella vita, cosa faresti?” A quel punto le ragazze erano all’università ed erano via di casa. Mi sono risposta con onestà e mi sono detta che quello che volevo fare era lavorare con la parte migliore dell’umanità: i bambini. Volevo guadagnare molti soldi e volevo viaggiare molto».

Un sogno è un sogno mentre un progetto ha bisogno di tempi di realizzazione e di possibilità, sennò resta un sogno. Così mi sono messa a studiare di nuovo tantissimo.

Oltre a studiare, Monica trascorre due o tre mesi davanti al computer per 13-14 ore al giorno per studiare le agenzie di tate. Come lavorano, cosa significava viaggiare ed educare in giro per il mondo. 

«Dopo più o meno tre mesi ho cominciato a fare application in varie agenzie nel mondo. All’inizio è stata dura perché non credevano che alla mia età uno potesse cominciare, poi però ho iniziato. Sono andata a Ginevra a occuparmi di una bambina di sei mesi, in una famiglia inglese, e da lì non ho smesso più».

Monica subentra non appena il lavoro della puericultrice finisce. Prende solo lavori di 3 mesi, rinnovabili al massimo di altri tre. 

«Dopo tre mesi, i bambini vanno messi un po’ “a orologio”, nel senso che bisogna insegnare loro e ai genitori, a dormire e a mangiare regolarmente. Poi segue lo svezzamento».

I suoi clienti sono famiglie in cui lui magari lavora nella finanza e lei spesso è una ricca ereditiera dedita all’interior design delle sue proprietà. Monica ci ha svelato qualche nome di personaggio famoso presso cui ha prestato servizio, ma le abbiamo promesso che  avremmo portato il segreto con noi nella tomba. Quello che pensa, però, di tutta la ricchezza in cui vive te lo possiamo raccontare.  

La ridistribuzione della ricchezza

«In questi anni non ho mai pensato “Ah, magari facessi io la vita loro”. No, proprio mai. Sono orgogliosissimo della vita che faccio e della mia storia. E poi, io vivo in situazioni di privilegio che da un punto di vista etico a volte mi stridono molto. Io sono una vecchia stronza, anarchica fondamentalmente».

Ci sono ovviamente delle evidenze dove il lusso è stra lusso e non ho il prosciutto davanti agli occhi, e lo so cosa sono le diseguaglianze e le classi privilegiate. Io vivo nel privilegio senza avere il peso della proprietà delle cose che uso, nelle case dei ricchi. E nel frattempo, guadagno e ridistribuisco la ricchezza.

In che senso ridistribuisci ricchezza?

«Prima di tutto ho pagato le tasse che non mi ero potuta permettere di pagare negli anni passati, perché per anni ho dovuto scegliere se mandare le ragazze all’università o se pagare le tasse, quindi ho preferito temporeggiare. Ho pagato ovviamente tutte le tasse in arretrato con le more, quindi è venuto a costare molto di più. Però va bene così. Adesso ho fatto un fondo pensione e sto aiutando delle persone che vivono in situazioni in cui io mi sono trovata qualche volta nella vita tempo fa. Mi sembra il minimo restituire al mondo quello che mi è stato dato».

Monica ha anche fondato un’associazione, Gliese581g, che lotta contro la violenza di genere, essendo lei stessa sfuggita a essa per ben due volte. Ma soprattutto, con tutta la ricchezza che produce, si prende anche il lusso di lunghe pause come adesso che sta per sposarsi sua figlia. 

«Mi sono felicemente incaricata di fare gli abiti delle due spose. Perché mia figlia sposa una fantastica donna. E quindi ho da cucire. E poi ora di aprile che si sposeranno, ci sono tante cose da fare… e io me ne voglio occupare».

Ho un’ultima domanda per Monica, prima di lasciarla. E cioè come ha fatto a darsi così tanto valore dopo la storia che ci ha raccontato.

Se pensi che io per tutta l’infanzia mi sono sentita dire “Tu cosa ne sai? Stai zitta”, sono stata convinta per molto tempo che quello che dicevo io non avesse alcun peso. Crescendo, e lavorando su questa cosa e poi anche grazie all’amore, perché io sono stata molto amata da Pasquale e dagli amici e dai miei fratelli e adesso dalle mie figlie, quell’amore diventa potenza. Vera potenza. E la vera potenza ti dà la consapevolezza del tuo valore.

«Per un po’ sono stata nel loop del “Non posso guadagnare tanto perché vivo qui. E qui non si guadagna tanto a fare quello che faccio io. Lo so che il mio lavoro vale, so che io valgo, ma qui non mi pagano abbastanza”. A un certo punto mi sono resa conto che questa lagna era un po’ la tiritera che mi dicevo per non cambiare le cose. Quindi ho deciso di modificare il mio punto di vista. Se tu vai sempre a dormire nel letto e le cose guardi sempre da quell’altezza, le cose andranno sempre nello stesso modo. Vai una volta a dormire sull’armadio, cambia punto di vista. Quel dormire sull’armadio per me ha voluto dire: “Le ragazze non sono più qui, non devo essere più qui per loro. Posso partire. E altrove mi pagano di più”. E quindi ho deciso di farlo a livello massimo, dove il mio lavoro viene pagato al massimo, credendoci so di valere, ho i riscontri poi… le agenzie importanti del mondo mi chiamano».

 

Leggi anche:

Indietro
Indietro

Quanto costa mangiare sostenibile?

Avanti
Avanti

Il canone tv scende a 70 euro all’anno