Ci voleva un mutuo a 40 anni per farmi “rappacificare” col privilegio

Lorenza nasce a Genova in una famiglia benestante che vive nel culto del risparmio. Potrebbero viaggiare e godersi la vita, ma meglio non farlo, perché non si sa mai cosa riserva il futuro. Quando si tratta di farla studiare all’estero o in un’università privata, i suoi genitori non badano a spese, ma per loro stessi non comprano niente. Nel tentativo di prendere le distanze da questo modello, Lorenza si regala bellezza, osa godere, viaggia. La casa di 40 metri quadri che le hanno comprato i genitori è il paracadute mentale per lasciare lavori che non la rappresentano, prendere strade incerte, sperimentare. Ma la consapevolezza di potersi permettere tutto ciò solo grazie ai sacrifici fatti dai suoi, un giorno le presenta il conto. Decide così, a 40 anni, di acquistare una casa con una stanza in più, stipulando un mutuo e lo fa in concomitanza con un nuovo cambio di lavoro. Inizia per lei una nuova stagione della vita, scandita da un file excel con entrate e uscite, spese fisse e straordinarie. Ogni tanto si chiede perché si sia andata a mettere in questa situazione di fatica e di contenimento dei piaceri. «Forse l’ho fatto anche per dimostrarmi che, nonostante io abbia sempre avuto le spalle coperte, ce la posso fare anche da sola».

Sono cresciuta nella cultura economica del risparmio. Un risparmio dettato da un senso di responsabilità quasi calvinista. Per cui anche se una cosa si può fare, è meglio non farla perché non si sa mai cosa potrebbe succedere nel futuro. E quindi tuteliamoci.

Nel tentativo di prendere le distanze dai suoi, Lorenza esce continuamente dalla comfort zone, rischia, si regala bellezza, osa godere. Ma la sensazione di potersi permettere tutto ciò solo grazie ai sacrifici fatti dai suoi, un giorno le presenta il conto.

Una giovinezza di risparmio e privilegio

«Devo dire la verità. Da bambina non mi è mai mancato niente. Non sto dicendo che i miei genitori non mi compravano le cose, ma che non c'era allineamento tra quello che desideravo e quello che mi facevano fare. E questa cosa ti logora dentro perché alla fine ti domandi perché non si possa ogni tanto correre il rischio di uscire dalla comfort zone».

Lorenza nasce a Genova in una famiglia benestante dove entrambi i genitori lavorano, ma sono rimasti a vivere nel vecchio quartiere dove i suoi nonni e bisnonni avevano una macelleria.

«A un certo punto ho capito che il quartiere in cui vivevo e il modo in cui vivevano gli altri, a me non mi piaceva. Io non ci posso stare tuttora e, ogni volta che torno, la vivo con sofferenza. Perché a me piace avere le cose belle intorno».

Lorenza è la prima nipote da parte di padre, e resterà figlia unica, enormemente amata.

«Quindi tutto davanti a me si apriva. Chiedevo poco, in realtà perché i miei erano molto parchi e tendenzialmente mi dicevano di no, anche se si poteva». 

C’è solo una tipologia di spese a cui i genitori dicono sempre di sì.

«Quando si è trattato di farmi fare un’università privata, di mandarmi all’estero quando facevo il liceo o di fare degli investimenti sul mio futuro, non ci hanno mai pensato due volte». 

Per se stessi invece non spendevano. Secondo me questa cosa a lungo logora un po’ anche te, perché ti senti come quello che fa le cose a discapito di qualcun altro, sebbene quel qualcun altro non te l’abbia mai detto.

Ho chiesto a Lorenza se si sentisse in colpa per tutti quei soldi spesi per lei.

«Senso di colpa forse no. Sarebbe attribuirmi un sentimento troppo nobile, forse un senso di incapacità a capire. Io ricordo che noi guardavamo questi documentari in televisione insieme in cui si vedevano le savane africane. E io dicevo “beh, che bello sarebbe andarci? Sì, sarebbe bellissimo”. Poi passavano gli anni ed era sempre questa dinamica in cui vedevamo il documentario, ma non diventava mai atto. E io sono cresciuta con questa roba qua». 

Lorenza, a differenza loro, prende tutto. Viaggia, si trasferisce a studiare a Milano, frequenta un’università privata. 

«E visto che non sono scema, dicevo: “Ma scusa, ma se lo potete fare per me, perché non lo fate per voi stessi?” Questo è rimasto il mistero. E chiaro, se loro non avessero fatto dei sacrifici forse non avrei potuto avere tutto questo. Per questo non li condanno. Alla fine mi son presa solo i vantaggi di questa situazione. Mi dispiace però, perché sono convinta che si ha profondamente ingiusto verso se stessi».

I primi lavori e l’incapacità di negoziare

Durante gli studi Lorenza si attiene a quanto richiesto dai suoi: non lavora.

«Mia mamma non voleva che lavorassi. Lei aveva lavorato per mantenersi durante gli studi e la ricordava come una cosa che lei faceva perché i suoi non potevano permetterselo. E visto che invece loro potevano permetterselo, io non dovevo lavorare».

Finita l’università, Lorenza si affaccia al mondo del lavoro e l’incontro non è esattamente dei migliori.

«Quando inizio a lavorare non mi pagano. Faccio stage su stage e niente. Poi, a un certo punto, inizio a lavorare per due anni in questo posto dove fanno documentari, e anche lì non mi pagano e i miei genitori continuano a incoraggiarmi».

Non avendo queste grosse esigenze economiche mi sono un po’ accomodata. Forse mi avrebbe aiutato se fossi stata un po’ più affamata a chiedere di più, a valutarmi di più. Quando hai le spalle coperte dici “Vabbè, potrebbero darmi di più”. Però alla fine, fatti due conti, ce la puoi fare lo stesso. Mi è stato anche detto in alcune situazioni lavorative, “ma tu hai la casa di proprietà? Alla fine vivi da sola. Che problemi che spese potrai mai avere?

La casa, in effetti, gliel’hanno comprata i genitori, a 28 anni, quando ormai viveva a Milano da 10 anni ed era chiaro che non sarebbe più tornata a Genova. 

«Poi non avevo il mutuo perché la casa era stata acquistata da loro, quindi avevo solo le incombenze classiche di un proprietario di casa: mi pagavo le spese condominiali, facevo la spesa per me. Era autonoma da quel punto di vista, se non fosse per il fatto che ero in un posto che mi era stato regalato».

Quella casa, per lei, è un paracadute mentale. Lorenza sa di poter lasciare lavori che non la rappresentano, prendere strade incerte, sperimentare. Tant’è che dopo due anni nella società di documentari, vira la sua carriera verso qualcosa di più giornalistico. Passa da un tirocinio a Radio Popolare fino alla redazione milanese di un magazine online genovese.

«Ci sono stata cinque anni, fino a quando ho capito che non sarei cresciuta più di così. Ancora una volta forse avevo fatto un errore: avevo dedicato tutta la causa, ma non avevo pensato per niente a me stessa. Errore gravissimo. Se dovessi dare un consiglio ai giovani d'oggi direi non pensate mai alla causa, ma non per essere poco idealisti, ma perché non paga. E quindi a un certo punto mollo tutto, forte del fatto che potevo farlo. Li saluto e vado a fare un anno sabbatico».

In una famiglia che non ha mai rischiato nulla, Lorenza sembra sfidare continuamente l’incerto.

«Ci tengo a dire che i miei non erano felicissimi quando facevo queste cose. Loro non hanno smesso di sostenermi, ma non erano contenti di farlo, non per una questione di tirchieria, ma perché per loro era profondamente sbagliato lasciare qualcosa di certe per qualcosa di incerto. Ed è tuttora così. Ogni volta che capitava mi chiedevano: “Ma sei sicura?Ma chi te lo fa fare?” E alla fine lo facevo lo stesso, forte del fatto che loro mi avrebbero comunque sostenuta».

C’è una domanda che mi preme nel cervello mentre vedo Lorenza agire in aperta contraddizione con il modello familiare: quanto è stata condizionata da loro, nel fatto di non avere una famiglia sua?  

Ho avuto l’impressione che così presi nel non voler aver nessun tipo di difficoltà facessero sempre scelte conservative, anche nell’ottica del loro lavoro.

«Mia madre faceva l'insegnante e amava molto farlo. Però avrebbe potuto accettare posti di lavoro più lontani per avere agevolazioni di carriera. Però non l’ha fatto per me. Oppure mio padre, non andava a fare i viaggi perché si sentiva in colpa se quei bene, invece di destinarli a sé stesso li destinava a qualcun altro della famiglia. La risposta che mi sono data io è che non volevo avere una famiglia perché mi piaceva l’idea di andare nella mia direzione e ho sempre avuto l’impressione che avere una famiglia di avrebbe portato in un’altra direzione».

Il bisogno di mettersi alla prova

A un certo punto, però, Lorenza si accorge di ritrovarsi sempre in lavori in cui non si sente valorizzata o non ha alcuna possibilità di fare carriera. Anche la casa che i genitori hanno comprato per lei non è più capace di farla felice. Pur non avendone l’oggettiva esigenza, sente il bisogno di avere un nuovo lavoro e di avere una stanza in più.

«È un momento dettato anche dal Covid. Io ho passato un periodo lungo come tutti, in una casa di 40 metri quadri da sola, con un gruppo di amiche tutte fuori sede, nelle loro piccole casette, quasi tutte come me, senza compagni, senza figli e la sensazione di solitudine accresce. Non è che se uno vive in 200 metri quadri sta meglio, però ti rendi conto che forse qualcos’altro è possibile. E allora volevo quel famoso grado di bellezza in più. Trovo la casa quattro giorni prima che scoppi la guerra in Ucraina, quindi con i tassi di interesse che aumentano vertiginosamente, e tre giorni dopo che ho firmato un nuovo contratto di lavoro. Quindi sono addirittura nel periodo di prova quando andiamo in banca a chiedere il mutuo».

Il mutuo alla fine lo ottiene, ma solo grazie alla garanzia dei suoi genitori. 

Mi vergogno anche un po’ perché io ho 40 anni e lavoro da un po’. Quindi loro sbandierano davanti a me e alla banca tutte le risorse che hanno da mettere a disposizione per garantire per me. Mi sono sentita un po’ imbarazzata e ho colto nel loro sguardo quel “Ma perché ci fai fare questa cosa?” Non me l’hanno mai detto ma mi sono sentita piccola così, cosa che nella mia vita non era mai successa.

Quest’ultimo colpo di testa di Lorenza, però, è quello definitivo, quello che cambia tutto. Perché per la prima volta sta rischiando a sue spese.

«E lì inizia una parte diversa per me. Secondo me ero veramente incosciente del fatto che avere una cifra che tutti i mesi devi destinare obbligatoriamente è qualcosa ti cambia la vita. E ogni tanto sono super fiera di me, perché adesso addirittura sono riuscita ad avere sempre un capitale, per cui sono tre rate del mutuo avanti. E poi sono sempre terrorizzata di aver dimenticato qualche spesa imprevista».

Da quando ha fatto un mutuo, Lorenza ha cambiato completamente la gestione dei suoi soldi. Ha un excel con entrate e uscite, spese fisse e straordinarie. Ancora adesso si chiede di tanto in tanto perché si sia andata a mettere in questa situazione di fatica e anche di contenimento dei piaceri che non aveva mai vissuto prima.

«Inconsciamente mi sono messo nella situazione che i miei hanno evitato per tutta la vita. Cioè, loro che facevano tutte le cose passo per passo, una roba del genere non l'avrebbero mai fatta. E io l'ho fatta forse anche per dimostrarmi che, nonostante io abbia sempre avuto le spalle coperte, ce la posso fare anche da sola».

Mi sono detta “ma sai che forse questa roba qui rientra proprio nel percorso che tu hai fatto in una famiglia molto stabile, dove le cose si fanno in maniera sempre molto conservativa?” E cioè rompere gli argini: fare una cosa che mi mette in difficoltà per stare meglio. A quarant’anni tra l’altro.

Un nuovo senso di responsabilità

Provo a fare una considerazione scomoda. Lorenza è comunque figlia unica e tutti gli asset che i genitori hanno sbandierato per garantire il suo mutuo, un giorno saranno suoi. Che senso ha, adesso, privarsi di qualcosa, se non per il puro piacere di farlo?

«C'è un tema di responsabilità ribaltato. I miei genitori credo che abbiano costruito questa solidità per la loro tranquillità, la loro e la mia. Capisci che quando tu intervieni con un peso specifico, intaccando quella tranquillità, hai una responsabilità. Cosa che tra l’altro a parti invertite non potrei fare. Cioè se i miei genitori avessero bisogno di me? Economicamente io non potrei aiutare».

Lorenza appartiene a una generazione che non riuscirà a raggiungere gli stessi livelli di ricchezza della precedente e che sembra condannata a consumare quella ricchezza.

«Non ho figli, difficilmente credo ne avrò. Però vuol dire che andrò a consumare quello che è stato messo via. È un po’ un peccato, no?».

Tanto più che questo consumo avviene lavorando incredibilmente di più.

«Mio padre lavorava meno di me, com’è possibile? Cosa sta succedendo? Io ricordo mio padre che, pur avendo un buono stipendio, alle 17.00 era a casa. Invece, tutte le volte che mi chiamano, io sono appena uscita dall’ufficio. Ma sono le 20.30».

Oggi Lorenza, che lavora in un ente benefico e ha iniziato a risparmiare, si chiede se consumare sia davvero l’unica opzione possibile.

«Questa è un po’ una deformazione professionale, in questo momento mi capita di vedere tantissime persone, anche molto benestanti, che fanno delle donazioni dei fondi solidali. E io ci ho pensato: vorrei che un po’ di quello che ho costruito vada a chi mi ha consentito di farlo, alla città, al luogo, alla situazione, a una me che non era quello che sono ora e che grazie a questo ecosistema lo è diventata. Ecco, questo secondo me è importante. Io non ne sento mai parlare, eppure è determinante, Nel momento in cui ti senti parte di qualcosa, ti dà un grosso stimolo».

Più in generale, Lorenza oggi pensa che ci siano tanti tipi di eredità da lasciare alla propria città o al pianeta.

Ci sono tante persone in Italia che stanno facendo delle cose senza averne un ritorno proporzionato a livello economico. A me fa stare meglio pensare che c’è gente che si adopera e non lo fa con stipendi milionari. Secondo me è un’eredità pure quella. Se i nostri figli e i nostri nipoti ci vedono impegnati su qualcosa che non ci fa diventare miliardari necessariamente, forse vuol dire che stiamo lasciando qualcosa lo stesso.

Leggi anche:

Indietro
Indietro

Silvia, che deve imparare a sbagliare

Avanti
Avanti

Il mese degli sconti per chi compra solidale