Altro che accumulare, i miei genitori se la sono mangiata la vita

Valeria Viola è cresciuta come dentro un film di Jerry Calà e Christian De Sica. I suoi genitori, di umili origini, grazie alla bravura del padre nel lavoro di lobbing per le industrie farmaceutiche, si erano ritrovati per le mani una grande ricchezza che si erano goduti fino all’ultimo centesimo: vacanze in Sardegna in alberghi frequentati da calciatori, scuole private per le figlie, circoli esclusivi, feste in giardino con oltre 200 invitati… Valeria cresce in questo mondo come una marziana. E fin da quando ha 15 anni si mette a lavorare per non dover chiedere soldi ai suoi genitori e poter soddisfare i suoi bisogni, che loro non avrebbero approvato, in quanto troppo umili. Valeria studia Antropologia culturale e inizia a lavorare in una Ong. Quando suo padre muore improvvisamente d’infarto, nel mezzo della sua sfarzosissima festa di 60 anni, non le lascia granché di tutta la ricchezza che ha bruciato in vita. Ma lei prende in mano il suo lavoro e raccoglie la sua vera eredità: le relazioni. Tutte le persone che non erano riuscite a restituire qualcosa a lui per la sua generosità, lo restituiscono a lei, insegnandole il lavoro e supportandola. Valeria oggi si muove dentro il mondo in cui suo padre aveva costruito la sua fortuna, ma lo fa a modo suo, cercando e trovando lo spazio per i suoi valori. Gli stessi valori che, adesso, vuole trasmettere a sua figlia adolescente.

Ascolta il podcast della puntata:

«Non mi piace Vasco Rossi, ma se penso alla vita dei miei genitori mi viene in mente la canzone È una splendida giornata. Loro l’hanno proprio stravissuta. Sono stati aiutati dai soldi? Sì, anche. Però l’hanno fatto perché avevano l’approccio di mangiarsela la vita. Ecco, questo è quello che mi è stato passato».

Valeria Viola ha 43 anni e vive a Roma, proviene da una famiglia molto agiata ed è sempre stata circondata da lusso e ricchezza. Ma l’eredità che le hanno lasciato i suoi genitori è un’altra. 

Un’adolescenza sfarzosa

Il papà di Valeria verso la fine degli anni Settanta iniziò a fare un lavoro che ancora non esisteva. Si occupava delle relazioni istituzionali per le aziende farmaceutiche, nell’ambito della regolamentazione del farmaco. Un’attività di lobbing molto tecnica.

«È diventato molto bravo. Nel corso del tempo si è fatto un nome ed è riuscito a emanciparsi a livello sociale. È stato il primo della sua famiglia ad aver studiato».

Lo script di un’infanzia umile si traduce in una vita di lussi e godimenti.

«I miei genitori erano molto giovani quando mi hanno avuta: mia mamma aveva 24 anni e mio padre 27, e vivevano gli anni Ottanta come nei film di Jerry Calà e Christian De Sica. Erano festaioli, giovani, belli e sportivi. Io vivevo accompagnandoli ai circoli del tennis, andando alle feste di carnevale con i loro amici giovani. C’era ricchezza in casa. Sono sempre stata a scuole private, ho sempre avuto bei vestiti, pur essendo una persona molto semplice già da bambina».

Provenivano da situazioni molto umili, per cui questi anni Ottanta erano vissuti in maniera ruggente, con il desiderio di poter riuscire, di potercela fare.

Sua madre faceva la casalinga prendendosi cura di lei e di sua sorella più piccola di nove anni. La sua famiglia era emigrata dalla Sardegna a Roma quando lei aveva sette anni.

«Era nata in un contesto umile, ma dignitoso. Avevano una casa di proprietà, però mai delle vacanze, mai spingere le figlie femmine a studiare. Quello che hanno sempre insegnato a mia madre era “Sposati bene: quello è il tuo lavoro”».

Nella ricostruzione di Valeria, il confronto con le origini dei suoi genitori è una chiave di lettura importante. 

«C’era una forte rivalsa sociale nel loro modo di vivere. Per esempio hanno deciso di mandarmi a scuola dalle suore, non perché fossero cattolici o credenti, ma perché nel privato funziona tutto meglio, dicevano, e perché lì mi sarei fatta delle connessioni, lì ci sarebbe stata la bella gente. Io andavo a scuola di fronte al Gianicolo, dove c’erano i figli dei medici e dei primari del Bambino Gesù. C’erano figli di avvocati, gente che viveva in centro, e quindi per loro era: “Mia figlia incontra queste persone”. Era farsi vedere. Noi, poi, andavamo in vacanza in Sardegna in un posto vicino a Cagliari, dove all’inizio degli anni Ottanta c’erano tutti i calciatori. E per i miei genitori era un vanto avere attorno persone così famose. Tre settimane di vacanza in quel posto ci costavano 40mila euro: in massimo tre anni ci saremmo potuti comprare una casa».

La scelta di una vita più umile

Valeria, da parte sua, ha un’indole completamente diversa. 

A questo eccesso dei miei genitori ho risposto con una vita quasi parca, andando sempre nei mercatini dell’usato a Porta Portese o scegliendo dei regali di Natale che non fossero delle borse o dei vestiti griffati, ma libri, concerti, esperienze di viaggio.

«Anche perché poi mi mandavano dalle suore che mi insegnavano quello, il valore della povertà, il prendere a tavola quello di cui c’era bisogno perché i bambini poveri in Africa nel frattempo morivano. E quindi tu dovevi essere umile, dovevi essere una brava cattolica, facendo un utilizzo dei soldi completamente diverso dal loro».

È un privilegio anche questo: avere tutto e potersi permettere di non desiderare niente. Ma in realtà Valeria non ha proprio tutto. Deve lottare per ottenere ciò che desidera profondamente e anche per raggiungere il suo standard di benessere che è molto diverso da quello dei suoi genitori.

«Per esempio, i miei genitori non volevano che mi comprassi il motorino; così, a 15 anni ho cominciato a fare le feste per bambini con un’amica. Me lo ricordo ancora: ho pagato il mio motorino un milione e 800mila lire, era un’Honda Sky. Io guadagnavo 150mila lire a festa. Un po’ li spendevo, e un po’ li mettevo da parte, per poter essere libera di fare quelle cose che erano troppo umili per i loro standard».

Valeria inizia a lavorare facendo feste per i bambini e non smette più.

«Ho preso una borsa di studio, e in università facevo la bibliotecaria. Poi facevo la commessa a Natale in un negozio di giocattoli. Ho sempre fatto qualche cosa per essere indipendente e non dover chiedere soldi a loro. Per me è stata una reazione alla loro spregiudicatezza nell’uso dei soldi perché quello che arrivava spendevano… e quindi io lo vedevo e lo subivo. Non avevamo una casa di proprietà, a parte quella dove vivevamo tutti assieme, nessun titolo o investimento… tutti spesi. Mio padre per il suo compleanno faceva delle feste in giardino in cui invitava catering, camerieri in livrea. Un altro film che mi viene in mente è La grande bellezza, quando c’è quella bambina che dipinge a casa e tutte le persone che arrivano sono un po’ assurde».

Ed è proprio a una di queste feste che la vita presenta il conto a suo padre...

«Durante la festa dei suoi sessant’anni, una di queste feste grandiose dove avevamo 200 persone a casa, ebbe un infarto e morì sulla pista da ballo. E questa cosa è veramente da film».

Forse mio padre non ha saputo equilibrare bene vita e lavoro. Però, per guadagnare ha sempre lavorato molto e tornava a casa sempre molto tardi. Ha sacrificato parte della sua vita privata per il lavoro.

Alla morte del padre, Valeria non è diventata ricca come quella vita di sfarzi avrebbe potuto lasciar immaginare.

«Quando mio padre è morto ricordo che mi ha lasciato 60mila euro, che rispetto ai soldi che io vedevo girare devo dire che non sono pochi ma non erano neanche tantissimi. Ringrazio sempre che non abbia lasciato debiti. Eravamo sempre sul limite ma non è mai andato sotto. Ha sempre onorato i suoi debiti».

Mi ricordo che era molto orgoglioso di pagare le tasse. E di pagarne anche tante.

Valeria, nel frattempo, coerente con i suoi valori, si era laureata in antropologia culturale e aveva iniziato a lavorare in una Ong. 

«Quando ho deciso volontariamente di avere una figlia, quindi non è neanche capitato, è stata una decisione ben ponderata, sono stata messa da parte da questa organizzazione. A quel punto mio padre mi disse di andare a lavorare con lui. Inizialmente ero un po’ restia, poi però ho accettato. Lui mi ha messo a disposizione tantissime persone e mi ha fatto fare tantissima formazione. Dopo pochissimo però lui è morto».


L’eredità nascosta del padre

Valeria decide di continuare a portare avanti l’attività di consulenza del padre. E così scopre la vera eredità che lui le ha lasciato. Un’eredità che non ha niente a che vedere con i soldi.

«La mia eredità sono state le relazioni. Tante persone hanno avuto un senso di gratitudine per la sua generosità e quando è morto, mi hanno supportato e hanno restituito a me quello che non sono riusciti a restituire a lui. Mi sono stati accanto e mi hanno insegnato il lavoro».

Valeria inizia a muoversi dentro il mondo in cui suo padre aveva costruito la sua fortuna. Ma lo fa a modo suo cercando e trovando spazio per i suoi valori.

«Io lavoro molto in oncologia e con le malattie rare. Questo fa si che io mi svegli ogni mattina con una motivazione molto forte. Oggi siamo sette persone. Io ho dato un’impronta molto diversa all’azienda di mio padre, ma c’è ancora qualcosa di lui in quello che faccio, e questo mi fa molto piacere».

La sua storia familiare, il modo in cui si spendevano i soldi in casa, ma anche la separazione dei suoi genitori, hanno condizionato non solo il suo modo di gestire il denaro, ma la sua idea stessa di indipendenza.

Per me lavorare e potermi autodeterminare nelle mie scelte è fondamentale. È proprio la risposta a quello che madre non ha potuto fare. Perché non ha mai lavorato, ha investito tutto sulla famiglia, in un castello di carta che poi è crollato. Anche la sua indipendenza economica non c’è mai stata.

«Si è sposato bene ma poi dopo quando mio padre è morto non c’era neanche più lo stipendio per gli alimenti e sono stata io che ho mantenuto mia sorella e mia madre. Ero io quello che pagava l’assicurazione, il riscaldamento…».

Valeria presta molta attenzione a ciò che vuole trasmettere a sua figlia adolescente. «Lei sta facendo tutte scuole pubbliche. E questa è una cosa molto forte perché vede un altro tipo di ricchezza relazionale, che è la diversità». E poi quello che le faccio vedere è un diverso tipo di role model materno. Mia madre occupava le sue giornate giocando a tennis, andando al circolo, giocando a carte; mia figlia invece vede una donna che la mattina esce di casa e torna la sera. Non faccio i compiti con lei perché non riesco. Ogni tanto le dico qualcosa e mi rendo conto che sono assente, ma mia madre era assente pur stando a casa. Quindi funziona così».

Mia figlia vede una persona che fa cose e che se dovesse succedere una sfiga se la saprebbe cavare da sola.

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