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di Rame

Così ho imparato a rimodellare i sogni sul mio budget

Seguire i propri sogni richiede coraggio, ma anche compromessi. Tra ciò che immaginiamo per noi stessi e ciò che possiamo davvero realizzare, c’è una realtà imprescindibile: il denaro. Lo sa bene Sara, illustratrice torinese che usa il disegno per esplorare emozioni e salute mentale. Londra era la città dei suoi sogni, ma la realtà economica e personale l’ha costretta a cambiare rotta. Questa è la storia di come ha adattato i suoi sogni per farli entrare nelle sue possibilità.

Tempo di lettura: 11 minuti

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Sara De Santis

Ascolta il podcast della puntata:

«Ho iniziato a lavorare come illustratrice e a costruirmi un piccolo seguito e adesso è un lavoro che mi appassiona e che non voglio lasciare. Però vivere a Londra con uno stipendio italiano è davvero complicato e mi ci sono voluti quattro mesi per rendermene conto. È affascinante, però, se mi guardo indietro, vedere come il percorso non sia stato affatto lineare: anche passando per mille deviazioni, alla fine le cose giuste tornano e si incastrano nel modo migliore. Ed è così che siamo finiti a Castillon della Plana. Quando parliamo con la gente del posto, ci chiedono sorpresi: “Ma voi venite dall’Italia… cosa ci fate qui?”».

Seguire i propri sogni è una questione di coraggio, ma anche ma anche di compromessi. Perché tra la visione che abbiamo di noi e la possibilità di realizzare quella visione si inserisce un elemento ineludibile: il denaro. Lo sa bene Sara, illustratrice torinese che attraverso il disegno racconta la complessità delle emozioni e della salute mentale. Londra era la città dei suoi sogni, ma la realtà — economica e personale — l’ha costretta a rivedere i piani. E questa è la storia di come è riuscita a modellare strada facendo i suoi sogni, per farli rientrare nello spazio delle sue possibilità.

Nella bolla di vetro

Sara De Santis ha 28 anni ed è di Torino, ma da circa due anni vive a Castellón de la Plana, una tranquilla città spagnola affacciata sul Mediterraneo, a un’ora da Valencia. Ultima di quattro fratelli, Sara è cresciuta in una famiglia dove tutto è di tutti. E dove ciascuno è una spalla per l’altro.

«Si è creata proprio una rete di supporto. Certo, quando litighiamo magari arriviamo anche a urlare e a dircene di tutti i colori, però siamo davvero molto legati, ed è una cosa bellissima. Per me, ad esempio, è sempre stato naturale condividere tutto, anche l’armadio: si apriva e si prendeva quello che c’era. Lo stesso vale per i soldi — non ho informazioni che considero solo mie, private, da tenere tra me e il mio ragazzo, per dire. Mi sento molto un libro aperto».

Essere la più piccola di casa, però, le ha cucito addosso una sorta di velo di protezione, specie quando si affrontavano temi come il denaro.

«Non mi è mai mancato niente, assolutamente, però sì, le difficoltà spesso c’erano. Me le ricordo però come qualcosa di lontano, non come se fossero rivolte direttamente a me. Mia mamma mi ha sempre detto, e lo fa ancora adesso: “Fosse per me ti terrei in una bolla di vetro per proteggerti.” C’è sempre stato quell’occhio di riguardo, quelle attenzioni che i figli minori si portano dietro».

Quella protezione si traduce in una scarsa educazione finanziaria finanziaria.

«Mi ricordo anche quando andavo alle medie, all’oratorio: magari avevo un euro in tasca, e lo spendevo subito per dieci Goleador, così, senza pensarci. Non mi veniva mai in mente di metterlo da parte e pensare: “Magari tra dieci giorni ne ho dieci e mi compro un bel diario”».

Se la sua consapevolezza finanziaria è nulla, sul fronte professionale Sara ha le idee chiarissime.

«Infatti, in terza media, mentre tutte le mie amiche erano indecise e un po’ nel panico — linguistico, sociopsico-pedagogico, e così via — io non ho avuto alcun dubbio: sapevo già che avrei scelto grafica. E una cosa per cui sono davvero grata è che i miei genitori non mi hanno mai spinta a fare l’università».

La trappola del lavoro dei sogni

Finita la scuola di grafica, Sara inizia subito a lavorare per una rivista di moda, e dopo, entra in un’agenzia di comunicazione con un contratto di stage, e per sei mesi non percepisce nessuno stipendio.

«Mi ricordo la frase del capo che mi disse: “Guarda che sei qui per imparare, dovresti essere tu a pagare me”».

E come spesso accade quando si rincorre il cosiddetto “lavoro dei sogni”, Sara non solo accetta di lavorare senza retribuzione, ma finisce anche per ritrovarsi in un ambiente tossico.

«Era un’agenzia di comunicazione molto conosciuta a Torino e per me era un sogno lavorare lì. Anche lì gli straordinari non venivano pagati ed erano obbligatori. Io dovevo uscire alle 6:30, invece a quell’ora mi assegnavano nuovi lavori; il mio ragazzo veniva a prendermi alle 6 e alle 10 di sera ancora non sapeva dove fossi. Io neanche riuscivo a rispondere al telefono: era un vero clima di terrore e panico».

Terminato il periodo di lavoro non retribuito, Sara passa a una collaborazione occasionale, facendo ritenute d’acconto per quattro mesi. Poi, finalmente, arriva il primo contratto vero: un apprendistato che le garantisce uno stipendio mensile tra i 1000 e i 1200 euro. Ma quei soldi, per Sara, rappresentano un territorio sconosciuto.

«Non avendoli mai gestiti, mi rendo conto di non averne avuto la giusta concezione. Vivevo ancora con i miei, avrei potuto risparmiare e metterli da parte, ma non l’ho fatto. Allo stesso tempo, non posso neanche rimproverarmi troppo: non ho mai speso per cose costose o di marca. Li facevo andare via in tante piccole spese — una colazione un giorno, una cena un altro…».

Riconoscere il mobbing

Intanto, Sara continua a lavorare in agenzia e inizia a dare un nome a ciò che le succede: mobbing.

«La cosa più orribile è che non veniva dal capo in modo diretto, ma dai colleghi, perché quando una persona subisce questo per vent’anni e poi ne arriva un’altra che passa la stessa esperienza, si crea una rete orizzontale per cui è normale comportarsi così. Per esempio, se una collega andava via alle sei e mezza, gli altri colleghi che restavano dicevano: “Hai visto? È scappata, oggi ha fatto la giornata corta”. Le tensioni quindi arrivavano da tutti, anche quando il capo magari nemmeno c’era».

Un giorno Sara capisce che qualcosa nella sua salute mentale si è spezzato.

«A un certo punto ho detto basta, ero davvero arrivata al limite. Mi ricordo che ero sul balcone dell’ufficio, con il caffè in mano, e ho pensato: “Io mi butto di sotto”. E non era una battuta. È stato in quel momento che mi sono detta: “Ok, c’è qualcosa che non va. Mettiamoci in malattia.” E da lì non sono più tornata».

L’Eldorado: Londra

Sara decide di lasciare Torino e di trasferirsi, insieme al suo ragazzo, a Londra, per imparare l’inglese e lavorare come baristi.

«Io lo ricordo come il periodo più bello di tutta la mia vita, nonostante mi dovessi alzare alle 4 del mattino».

La distanza dall’Italia è anche la sua occasione per smettere di essere la figlia piccola e uscire dalla bolla di protezione in cui è sempre vissuta

«Quei chilometri mi hanno sicuramente aiutato a sviluppare un mio individualismo, a capire meglio me stessa, a mettermi alla prova e a fare cose che non avevo mai fatto prima».

«Non sapevamo cucinare, non sapevamo usare la lavastoviglie, non sapevamo fare la lavatrice, insomma, non sapevamo fare niente. Avevamo una stanza privata a casa di un ragazzo, Jonathan, un portoghese che porteremo sempre nel cuore. Lui ci ha insegnato a prendere la metro, a lavare davvero il pavimento, a cucinare… ci ha insegnato tutto lui. È stata un’esperienza magica, ricca di prime volte».

Quei mesi a Londra segnano un punto di svolta anche nella sua relazione con il denaro. Sara trova lavoro in un bar. Guadagna 1.400 sterline che vanno ben gestite quando si vive in una città così costosa.

«L’impatto con Londra è stato come un allenamento a vivere senza il superfluo. Ho iniziato a rendermi conto che ero da sola, che l’affitto era quello, lo stipendio pure, e così ho cominciato a tagliare tutto ciò che non era essenziale. Ed è proprio lì che ho iniziato, anche se poco, a mettere qualcosa da parte.»

La cornica romana

Quella parentesi idilliaca viene stravolta dal Covid. In pochi mesi, il bar per cui Sara lavora stabilisce la cassa integrazione, e di fronte all’incertezza globale, lei e il suo ragazzo decidono di rientrare in Italia. Si trasferiscono a Roma dove Sara inizia a lavorare come grafica per una piattaforma che tratta temi legati al mondo del lavoro.

«Avevo un po’ di paura a tornare in un contesto lavorativo italiano, soprattutto dopo l’ultima esperienza. Però lì è stato molto bello, perché il lavoro era molto flessibile: un po’ da remoto, un po’ da casa, e per la prima volta gli orari erano quelli giusti».

Quel lavoro le permette di mettere a frutto l’esperienza acquisita negli anni, ma ancora una volta è la passione a guidarla più del tornaconto economico.

«In realtà, all’inizio ho accettato come stagista, anche lì, perché le mie azioni sono sempre state mosse dal desiderio di fare ciò che mi piace. Non ho mai inseguito i soldi, nel senso di volerli fare a tutti i costi».

Questa volta, però, si rivela la scelta giusta.

«È stato in quel momento che ho aperto la Partita IVA e ho iniziato a portare avanti altri progetti. Sono arrivate anche nuove opportunità, e se all’inizio l’idea mi spaventava — venendo da un contesto in cui tutti, amici e familiari, sono dipendenti, e la Partita IVA mi sembrava qualcosa di astratto e intimidatorio — facendo un piccolo passo, si è rivelata una chiave per conquistare indipendenza. Così, pur avendo magari un’entrata fissa, ho potuto affiancare collaborazioni con altre realtà».

In quel periodo Sara riscopre come fonte di entrata anche un’altra passione che aveva coltivato dai tempi dell’agenzia, ma come hobby: l’illustrazione.

«C’era un iPad, e mi avevano chiesto di usarlo per un lavoro con un cliente. Così ho iniziato a prenderci confidenza mentre lavoravo come grafica. Per un periodo mi sono ritrovata a fare la grafica di giorno e l’illustratrice di notte».

Sara apre un profilo Instagram e inizia a condividere cose.

«Anche lì non era scontato buttarmi in qualcosa che sembrava momentanea, ma che invece mi ha aperto tante porte».

Il ritorno a Londra

Dopo il periodo romano, quella che era nata come una semplice passione prende forma e consistenza e le illustrazioni cominciano a diventare una possibile strada professionale. E intanto, decide di tornare a Londra, stavolta non per servire ai tavoli, ma per lavorare come illustratrice freelance. Lì si accorge che non puoi vivere in quella città con entrate legate a clienti italiani. Inoltre, Londra non le sembra più la città che ha lasciato tre anni prima.

«Mi aspettavo di ritrovare la Londra che avevo vissuto, e un po’ ci sono rimasta male, perché era un’altra Londra — quella famosa, uggiosa e grigia, che conoscono tutti. È stato strano: tutte le aspettative che avevo di ritrovare le cose esattamente com’erano le avevo lasciate sono state deluse. Era tutto completamente diverso».

Forse, però, a essere cambiata è soprattutto lei.

«Non ero più quella ragazzina che voleva solo godersi la vita. Ora avevo un lavoro che mi piaceva e mi ero resa conto di essere cambiata, di avere esigenze diverse, e che Londra ormai non faceva più per me. È stato difficile lasciare andare quella Sara spensierata, che voleva solo lavorare e imparare l’inglese, per accogliere una nuova versione di me: una Sara che aveva bisogno di calma, di sole, di relax e di mare».

L’arrivo in Spagna

È così che Sara e il suo ragazzo dirottano verso la Spagna. La meta dei sogni è Valencia, ma ancora una volta a Sara tocca fare i conti e accorgersi che gli affitti non sarebbero stati sostenibili. E allora, come sempre, modella il sogno per poterlo realizzare.

«Grazie al ragazzo di una nostra amica, che è di Castellón, ci siamo trasferiti lì. Ricordo che ci disse: “Vieni a Castellón, è a un’ora da Valencia, costa la metà, così intanto ti ambienti un po’. Può essere una soluzione temporanea, poi ti sposti a Valencia”. Ci siamo trasferiti in una città che non conoscevamo, lavoravamo durante il giorno e, finito il turno, andavamo in giro a esplorare i quartieri appena arrivati, come fosse un gioco».

«È stato tutto molto spontaneo, un continuo seguire il flusso. C’è una frase di Gianluca Gotto che amo: “Sii fiume, non essere roccia.” Mi recrimino tante cose, mi sento spesso sbagliata, ma una cosa la riconosco: sono sempre stata fiume».

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