Cosa significa crescere in una famiglia dove la stabilità manca da generazioni
Per Michelle, la precarietà non è soltanto una condizione lavorativa, ma una presenza costante che ha segnato la sua vita fin dall’infanzia. È un’eredità familiare, un filo invisibile che attraversa generazioni diverse, mantenendo lo stesso fragile equilibrio. Nel corso degli anni ha cercato più volte di riscrivere il copione a cui sembrava destinata, sempre con la stessa domanda a guidarla: quanto vale davvero il proprio valore quando il mondo del lavoro fatica a riconoscerlo?
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«La precarietà è qualcosa che mi attraversa ogni giorno; nel mio caso, però, è una presenza che ho interiorizzato sin da bambina, e ho la sensazione che resterà con me per sempre».
La precarietà, per Michelle, non è solo una condizione lavorativa che l’accomuna alla sua generazione, ma un’eredità silenziosa che attraversa la sua storia familiare, un filo sottile che lega generazioni diverse nello stesso equilibrio instabile. Con il tempo, ha capito che per riscrivere quel copione a cui sembra destinata, deve imparare a rispondere a una semplice domanda: quanto vale, davvero, il mio lavoro anche se il mondo attorno stenta a riconoscerlo?
Percepire la solitudine
Michelle ha 44 anni e vive a Bellizzi, in provincia di Salerno, la città dove è cresciuta. La storia d’amore di sua mamma, francese, e suo papà, irpino, inizia quasi per caso, durante un viaggio improvvisato.
«Mio padre era andato a vedere un concerto di Patti Smith a Firenze e dopo lo spettacolo disse all’amico che era con lui: “Ma lo sai che ho dei parenti a Nizza? Perché non andiamo a trovarli?”. Così partirono in autostop verso Nizza. È lì che ha conosciuto mia madre, e da quel momento è rimasto là fino al 1981, quando sono nata io».
Quando Michelle nasce, i suoi genitori sono poco più che ventenni e sognano una vita stabile. Così, tre mesi dopo, decidono di tornare in Italia e stabilirsi a Salerno, nella casa che il nonno di lui aveva comprato con i risparmi di una vita da tagliaboschi in Canada, in uno dei quartieri più ricchi di Salerno. Con uno scopo ben preciso.
«Mio nonno tornava più o meno ogni cinque o sei anni e la prima volta che tornò, decise di acquistare questa casa a Salerno. Era il periodo in cui tutti nel paese costruivano casa, ma lui decise di comprarla a Salerno, perché voleva che i figli andassero a scuola lì».
Quell’apparente stabilità dura poco. Il nonno, affetto da un disturbo borderline, comincia a sparire dalla vita della famiglia.
«Quindi mia nonna, da che non faceva nulla, a un certo punto ha cominciato a lavorare come domestica per tutti i condomini del palazzo signorile».
Ed è proprio in quel palazzo che vanno a vivere i genitori di Michelle quando rientrano a Salerno. La vita familiare inizia in modo incerto, scandita da difficoltà quotidiane e piccoli sacrifici. Il padre si adatta a lavori occasionali per sostenere la famiglia, mentre la madre, ancora inesperta della lingua, resta a casa prima con Michelle e poi con i suoi due fratelli.
«Mio padre ha fatto il manovale, l’elettricista, il disegnatore presso un’azienda che faceva impianti elettrici e ha fatto anche le pulizie nei condomini».
«Quindi io, da bambina, ho sempre sentito questa precarietà. Soprattutto la differenza rispetto al contesto, perché vivevamo in un quartiere bene, e soprattutto il nostro era un palazzo signorile, di avvocati, notai e professori universitari. Spesso mi succedeva di sentire proprio sulla mia pelle questa differenza, e per me i soldi hanno sempre rappresentato la linea di demarcazione tra me e loro. Questa cosa ha provocato in me sempre una grande solitudine, soprattutto quando, da bambina, magari ti invitavano ai compleanni e tu non potevi andarci perché non avevi i soldi per fare il regalo».
Come spesso succede nelle famiglie in cui il denaro è poco, di esso si parla tanto.
«Mio papà parlava sempre delle sue difficoltà, ma ci teneva anche a sottolineare i successi dei suoi amici. Li raccontava sempre con ammirazione e orgoglio, come se, per osmosi, potesse ricevere quel beneficio».
Fin da bambina, Michelle misura la distanza tra sé e chi la circonda in piccoli gesti quotidiani. Una porta che si chiude, una stanza inaccessibile, un’attività da cui resta fuori: sono segnali concreti di un mondo appena oltre la sua portata.
«Io adoravo andare a casa delle mie amiche, dove percepivo proprio la differenza rispetto alla mia famiglia. Lì non c’era il problema di non poter comprare merendine in più, si usciva, si compravano figurine, dolcetti, cose così. Le mie amiche andavano tutte a danza o in palestra, ma io non potevo. Mi bastava accompagnarle fino alla porta per sentirmi un po’ parte di quell’universo. Poi, quando mi chiudevano la porta della palestra in faccia — perché giustamente dovevano ballare o allenarsi — sentivo davvero quel senso di solitudine».
Il senso di appartenenza
Quando Michelle ha sette anni, le cose sembrano finalmente stabilizzarsi: il padre trova un impiego fisso come rappresentante di commercio, garantendo un minimo di sicurezza economica alla famiglia. Ma la tranquillità – ancora una volta – dura poco. La casa in cui vivono è di proprietà della nonna e la sorella del padre si propone di acquistarla. La famiglia di Michelle non ha risorse a sufficienze per comprarla, così sono costretti a lasciare Salerno e a trasferirsi in provincia, a Bellizzi.
«Una casa molto bella, però papà ha dovuto comunque fare un bel prestito per poterla acquistare. Anche quelli sono stati anni davvero difficili: con il mutuo e tre figli da mantenere, non è stato per niente facile».
Quel trasferimento, nonostante le difficoltà, restituisce a Michelle una dimensione che attutisce la sua ansia sociale.
«Mi sono trovata in un contesto completamente diverso, più alla pari rispetto a quello del passato, e in un certo senso mi ha giovato molto. Ho creato relazioni più equilibrate, in cui non mi sentivo più quella poverina, quella che non poteva fare certe cose; ero finalmente come tutti gli altri. Avevo un gruppetto di amiche con le quali ci prestavamo sempre i vestiti: io compravo un paio di jeans o una maglia, e poi ce li scambiavamo».
Quando Michelle ha 20 anni, sua madre, che non si era mai davvero ambientata in provincia, decide di tornare a vivere in Francia, lasciando la famiglia.
«Io mi sono presa cura di papà e, a 20 anni, sono diventata la “mammina di casa”: pulivo, facevo la spesa, cucinavo… Studiavo e lavoravo come cameriera in una pizzeria, perché non volevo assolutamente pesare sulla mia famiglia per i miei studi e le mie esigenze».
Il desiderio di riscatto
Finito il liceo, Michelle si iscrive a Scienze della Comunicazione e comincia a lavorare come giornalista per un quotidiano locale. Il suo desiderio è semplice: costruirsi un futuro con le proprie forze, riscattando quella sensazione di svantaggio che l’ha accompagnata fin da bambina.
«Ho vissuto una vita con il costante desiderio di farcela, di essere al di sopra di tutta quella schiera di persone che da bambina mi vedevano come la poverina, la peccata, quella da isolare, quella che non ce l’avrebbe fatta. Ho davvero faticato tantissimo per emergere».
Una volta laureata, però, quella fame di emancipazione si ridimensiona.
«È stato come fare un bagno di realtà, mi dicevo: “Ma io dove vado a fare la giornalista a Salerno? Devo andare a Roma… ma io non ho i soldi per andare a Roma. Come devo fare?”».
Michelle abbandona così il sogno della carriera giornalistica e lavora prima come segretaria in un’agenzia di intermediazione finanziaria, poi come commessa in un negozio di abbigliamento, e infine approda in Feltrinelli. Nel frattempo, si sposa. Dopo tre anni, però, il suo contratto non viene rinnovato.
«Non me l’aspettavo per niente, anche perché mi avevano dato parecchie rassicurazioni a riguardo. Diciamo che, mentre tutto sembrava a posto e il contratto doveva diventare a tempo indeterminato, un giorno non ho trovato il mio nome sugli orari della settimana successiva. È stato terribile».
Il copione finanziario di Michelle
Michelle a quel punto si sente intrappolata in un copione familiare che sembra ripetersi, dove la precarietà ritorna ciclicamente, nonostante i suoi sforzi per costruirsi una stabilità.
«Mi sono sentita di nuovo esclusa, mentre finalmente mi sentivo parte di un contesto in cui ero accettata e apprezzata. A un certo punto, ero stata di nuovo messa da parte».
Lo psicologo finanziario Brad Klontz parla di “Copioni finanziari”: un insieme di convinzioni e atteggiamenti verso il denaro che apprendiamo durante l’infanzia e che, spesso senza accorgercene, guidano le nostre scelte da adulti. E come i tratti somatici, questi copioni sono spesso ereditari: senza saperlo abbiamo mutuato dai nostri genitori paure, sicurezze e pensieri sul denaro, proprio come loro hanno fatto dai loro genitori.
Dopo aver lasciato la Feltrinelli, Michelle inizia a lavorare in un negozio di videogiochi. Un’esperienza che non le dà soddisfazione né professionale né personale. È il momento giusto per mettersi in pausa e fare una proposta a a suo marito.
«E allora dico: “Vabbè, questo lavoro non mi piace, non ci voglio tornare più. Ma ora sai che ti dico? Perché non facciamo un bambino?”».
La svolta imprenditoriale
Le incertezze economiche non li fermano. Nel 2012 nasce Sofia e, quando la bambina ha due anni, Michelle decide di aprire un bistrot letterario: uno spazio dove organizzare presentazioni di libri, incontri culturali e concerti. In tre socie, partecipano ad un bando per l’imprenditoria femminile e ottengono un finanziamento a fondo perduto di 125mila euro.
«Abbiamo aperto questo posto veramente bellissimo, dove si respirava un’aria internazionale. Era aperto dalla mattina, a colazione, fino alla sera tarda. Invitammo anche Wulf Dorn, lo scrittore. Quando venne, ci chiamarono da ogni parte d’Italia chiedendo: “Dove possiamo alloggiare per venire a vedere la presentazione?”».
Anche se gli eventi attirano un pubblico numeroso, il bistrot non riesce mai a diventare un’attività economicamente sostenibile.
«Io mi davo tipo 600 euro al mese. Lavoravo troppo, quindi non era sostenibile né dal punto di vista economico né familiare: non puoi lavorare 13 ore al giorno per 600 euro al mese».
I conti del bistrot non tornano e iniziano a emergere divergenze tra le socie. Dopo cinque anni dall’apertura, Michelle decide di lasciare l’attività.
«Forse lei ci credeva più di me nel progetto. Non che io non ci credessi, perché la mia prima idea non è stata: “Me ne vado, ti lascio”. Io le ho provato a chiedere se le andasse di vendere, ma lei non ha voluto».
Il passaggio da dipendente a imprenditrice non è mai semplice, e Michelle si rende conto di alcune competenze che non avevano per gestire un’attività in autonomia.
«Mancava proprio la capacità di tenere in ordine perfettamente le entrate e le uscite, in maniera molto più rigorosa. Ma non era solo questo: c’erano anche delle difficoltà relazionali».
Lasciata l’attività imprenditoriale, Michelle si ritrova nel pieno della pandemia.
«Così, ho cominciato a collaborare con l’Università di Salerno, scrivendo articoli scientifici e partecipando a convegni. E quel lavoro mi piaceva moltissimo, così ho pensato di provare il bando per fare un dottorato».
Precarietà e valore personale
Ancora una volta, Michelle si reinventa: vince il bando e per tre anni porta avanti un dottorato su moda e digital transformation. Al termine del quale la sua determinazione si scontra con la realtà di un mercato del lavoro che fatica a riconoscere il merito e il valore delle competenze.
«La situazione dei giovani postdoc e ricercatori in questo momento è terribile. L’Italia ha dovuto adeguarsi alla normativa europea, che stabilisce che gli assegni di ricerca non devono più esistere perché erano uno strumento di precarizzazione del comparto dei ricercatori».
«In pratica, dopo il dottorato, per anni venivano fatti assegni di ricerca senza creare una vera stabilità. Dunque l’Europa ha stabilito che andassero creati contratti di ricerca che garantissero 14 mensilità, contributi Inps e uno stipendio molto più alto. L’Italia si è adeguata, ha tolto gli assegni, ma non ha stanziato i soldi per i contratti, e quindi c’è un numero esagerato di persone che in questo momento lavorano praticamente a gratis».
Oggi Michelle sta aspettando i risultati di un progetto di ricerca finanziato dall’Europa e nel frattempo ha aperto la partita Iva e fa formazione in azienda. A sua figlia Sofia, si impegna a far percepire sicurezza e stabilità, evitando che cresca con la sensazione di precarietà che ha vissuto lei da bambina.
«Sono molto attenta a non lamentarmi, a non farle sentire niente. Con un po’ di fatica stiamo mettendo da parte dei soldi, grazie anche a delle piccole assicurazioni che abbiamo fatto qualche anno fa. Non si tratta di un fondo pensione, ma nel momento in cui riuscirò a potermelo permettere, sicuramente lo farò».
Oggi Michelle sa di valere — lo sente nel lavoro, nello studio, nella costanza con cui si è reinventata — ma fa ancora fatica a conciliare quel valore con l’incertezza economica che continua a condizionare la sua vita.
«La precarietà è qualcosa che ci attraversa tutti i giorni, ma nel mio caso specifico è qualcosa che ho inglobato dentro di me sin da bambina, e credo che resterà con me sempre. Mi sento a posto nell’intelletto, perché sento davvero di valere tanto; però vivere nella precarietà economica mi fa soffrire molto, perché sento che è qualcosa che non merito, soprattutto per le capacità e le competenze che ho acquisito».