Finita l’università, sto pagando di nuovo per studiare: quanto costa trovare un lavoro?
Dopo due lauree con il massimo dei voti, Margherita si è confrontata con la realtà del mondo del lavoro: non basta eccellere negli studi per trovare un impiego che rispecchi davvero le proprie ambizioni. La sua storia racconta una transizione generazionale, tra precarietà, risposte scarse dalle aziende e la necessità di investire — anche indebitandosi — per creare opportunità coerenti con le proprie competenze e aspirazioni.
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«Mi sentivo regredita sotto qualsiasi punto di vista. Anche se avevo un po’ di indipendenza economica, era come se fossi tornata indietro: ero tornata a casa, e in un certo senso avevo ricominciato a dipendere dai miei genitori. Secondo me non si parla abbastanza di quanto sia difficile il passaggio dal mondo dell’università a quello del lavoro. Non tanto per la parte tecnica — creare un curriculum, valorizzarlo, saper presentare le proprie competenze — ma proprio per la gestione dei “no” da parte delle aziende, o del silenzio, delle non risposte. Ed è una cosa per cui, sinceramente, non ero affatto preparata».
In un mondo del lavoro sempre più instabile e precario, Margherita ha scoperto l’inganno del merito. E cioè che non basta una carriera accademica eccellente per avviare una carriera lavorativa stabile. La sua storia non racconta un inciampo individuale, ma è la forma che ha preso la transizione al lavoro per la sua intera generazione. A un anno dalla laurea, il tasso di disoccupazione dei neolaureati resta intorno al 9–11%, spingendo molto più in là il tempo dell’indipendenza economica.
Spendere come atto di responsabilità
Margherita ha 26 anni ed è originaria di Cutrofiano, un piccolo paese nel cuore della Puglia. In famiglia le conversazioni legate al denaro non mancavano, ma venivano fatte sempre sotto voce.
«Mi ricordo che parlare di soldi era un po’ come non parlarne davvero. C’era sempre un certo non detto. A volte provavo un leggero senso di colpa, per esempio, quando tornavamo dallo shopping. Mia mamma amava viziarci, però quando rientravamo a casa nascondevamo le buste negli armadi per mostrarle a mio padre poco alla volta. Non ci hanno mai fatto mancare nulla, però c’era questo piccolo tabù: non sapere mai davvero quanto potessimo permetterci di spendere».
Per Margherita, ogni acquisto è una responsabilità.
«Molti vedono il poter spendere soldi come uno strumento di libertà, o anche di espressione. Per me, invece, è sempre stato un gesto di responsabilità — anche da bambina. Ci pensavo tanto prima di fare un acquisto, anche se si trattava solo di una maglietta. Forse non aveva senso rifletterci così a lungo, ma mi ricordo bene quella sensazione».
L’attitudine di Margherita è un’eredità silenziosa che deve a suo padre: un ingegnere informatico emancipatosi dalle proprie radici contadine.
«I soldi che aveva se li era guadagnati da solo, non glieli aveva dati nessuno. E anche se a volte poteva sembrare un po’ rigido, in realtà ci ha sempre dato tutto quello che volevamo, senza farcelo pesare».
La madre, invece, era un’insegnante di nuoto, che a seguito di una malattia era stata costretta a interrompere l’attività per poi, una volta guarita, decidere di restare a casa per dedicarsi a crescere Margherita e sua sorella gemella.
«Mia madre doveva stare a casa perché mio padre usciva alle sette del mattino e tornava alle sette di sera. Quando poi, intorno ai quarant’anni, ha voluto rimettersi a lavorare, non è stato semplice. Soprattutto all’epoca, tornare a lavorare — e magari trovare un impiego nuovo, mai fatto prima — era ancora più difficile per una persona un po’ più grande. Non che mio padre le facesse pesare la dipendenza economica da lui, però io capivo che lei voleva avere i propri soldi, gestirsi in autonomia, non dover rendere conto a nessuno. E questo è lo stesso insegnamento che ci ripeteva sempre anche a noi».
Forte degli insegnamenti della madre, Margherita inizia a lavorare fin da giovanissima, dedicandosi a piccoli impieghi stagionali, soprattutto nei mesi estivi.
«Non era tanto per guadagnare soldi da usare tutto l’anno, quanto per godermi l’estate, per non dover chiedere per una pizza in più o un’uscita in più con gli amici, che comunque per me non era considerato “un bene” di prima necessità. Ma non è semplice: quando sei cresciuta con un certo senso di colpa nel gestire i soldi, anche se sai che sono tuoi e puoi spenderli come vuoi, ti resta quella sensazione di dover rendere conto a qualcuno… anche se, in realtà, non c’è nessuno a cui darlo».
In quegli anni Margherita inizia a delineare la sua idea di ricchezza.
«Ho sempre pensato: non voglio essere ricca, ma voglio avere abbastanza soldi da non doverci più pensare. Avere pochi soldi è un pensiero ma anche averne molti lo è. Il giusto, per me, è non dover guardare il prezzo di qualcosa che sto acquistando e non sentirmi in colpa perché li sto spendendo».
L’impatto con la gestione finanziaria
Dopo il Liceo Linguistico, Margherita sceglie di iscriversi alla Facoltà di Economia e Management, una decisione dettata più dall’istinto che da una riflessione sulle reali prospettive professionali.
«Mi ricordo la prima lezione di economia aziendale: sulla lavagna c’era scritto “Spa” e io ero convinta che stessimo parlando di un centro benessere. Non avevo mai sentito parlare di economia in vita mia, però sapevo che dovevo seguire quella strada. Non l’ho fatto per una questione di soldi e non me ne pento».
Incoraggiata dal padre, Margherita si trasferisce a Ferrara assieme alla sorella. I genitori si fanno carico sia dell’affitto sia delle tasse universitarie, mentre una parte dei costi è coperta da una borsa di studio. Per il resto delle spese, Margherita e sua sorella ricevono circa 200 euro al mese ciascuna, una somma che riescono a far durare grazie a un’impeccabile gestione finanziaria.
«Io e mia sorella riuscivamo a fare la spesa con 25 euro a settimana, e per noi bastava. Mio padre continuava a chiederci se avessimo bisogno di soldi, e quando una delle due li finiva prima ce li mandavamo su PayPal a vicenda. Non ci è mai stato chiesto di sacrificarsi, però, crescendo e diventando un po’ più responsabili, è stato naturale cercare di fare il possibile per pesare meno».
Durante quegli anni, Margherita e sua sorella interrompono ogni lavoretto. Sanno che studiare è l’unica cosa che ci si aspetta da loro. L’obiettivo è far sì che le spese sostenute dai genitori durino il meno possibile.
«Mio padre faceva capire che voleva che mi laureassi nella prima sessione, quella di luglio, così da non dover pagare l’affitto per tutta l’estate. Ho evitato qualche uscita, se sapevo che avrei rischiato di tardare un po’. Non ci sono stati weekend liberi, non mi sono mai permessa di essere bocciata a un esame, e ho sempre cercato di ottenere il massimo dei voti. Ripeto: non mi chiedevano di farlo, ma io mi sentivo responsabile di questa cosa».
Margherita si laurea. Con il massimo dei voti, ovviamente. Al termine della Triennale, vorrebbe trasferirsi a Torino per una Magistrale in Marketing, la sua grande passione. Il padre incassa il colpo.
«Mi ricorderò sempre quella telefonata: quando chiamai mio padre per dirgli che volevo andare a Torino, perché a Ferrara non c’era un corso di marketing, lui mi rispose subito “Ok… non so se ce la facciamo”, come prima reazione. Una cosa che in realtà non aveva mai fatto, perché non ci faceva mai pesare il fatto che magari non ce l’avremmo fatta economicamente. Subito dopo, però, si riprese e disse che, in qualche modo, ce l’avremmo fatta».
L’illusione della carriera perfetta e l’overqualification
Margherita si trasferisce quindi a Torino, dove completa anche la magistrale con il massimo dei voti. Al termine degli studi, le aspettative per il suo futuro sono altissime.
«Da un punto di vista dello studio, avevo già dato tutto, quindi ero pronta a mostrare ciò che avevo imparato in quegli anni e, magari, a diventare finalmente indipendente economicamente. Però, in realtà, non è stato così semplice come mi aspettavo».
Per non avere spese di affitto, Margherita sceglie di tornare in Puglia e, nel frattempo, invia centinaia di candidature. Le risposte che riceve si contano sulle dita di una mano. Il Sud paga ancora uno svantaggio netto nei tassi di occupazione rispetto al Nord, segno che il primo ostacolo non è il merito ma il contesto in cui cerchi lavoro. I dati AlmaLaure a ci dicono che c’è un differenziale Nord–Sud di quasi 9 punti già a un anno dal titolo. Ma questo non è il problema di Margherita, perché i curriculum li manda in tutta Italia.
«Secondo me non si parla abbastanza di quanto sia difficile il passaggio dall’università al mondo del lavoro. Non tanto per creare un curriculum, saperlo valorizzare o mostrare le proprie competenze, quanto per gestire i “no” da parte delle aziende, le non risposte… ed è qualcosa per cui non ero affatto preparata. Essendo poi stata la prima a laurearmi tra tutte le mie amiche, non avevo neanche la possibilità di confrontarmi per sapere se anche a loro stava succedendo la stessa cosa. Per questo è stato molto pesante».
Quello di cui parla Margherita è una falla di sistema. I percorsi di orientamento universitario aumentano la probabilità di essere occupati non quando “ti insegnano il CV”, certifica Almalaurea, ma quando accorciano la distanza da imprese e selezioni reali.
Due mesi dopo, Margherita trova lavoro nel reparto marketing di un’azienda pugliese. Inizia con un contratto di stage da 700 euro al mese e, successivamente, passa a un apprendistato triennale da 1.200 euro mensili. I conti tornano perché vive a Gallipoli, in una casa di proprietà dei genitori. E i primi soldi che guadagna servono a spuntare una lista di desideri lunga cinque anni.
«Programmando per cinque anni tante spese, anche più importanti, si era accumulata una lista più lunga di quanto inizialmente pensassi. Così, i primi soldi sono andati via molto rapidamente, anche per acquisti significativi, come una macchina».
Il lavoro che ha trovato, però, non rispecchia le sue aspettative. E anche in questo, Margherita è dentro un fenomeno diffuso, l’overqualification. Nel 2023 circa un terzo dei laureati italiani risultava “sovraistruito” rispetto al lavoro svolto. In parole semplici, studi tanto, ma entri in ruoli che non usano davvero quelle competenze, in un corto circuito che logora motivazione e autostima. Ma Margherita non molla. E, per un po’, continua a inviare candidature in cerca di nuove opportunità. Ancora una volta, però, la mancanza di risposte da parte delle aziende mina la sua fiducia in se stessa.
«Gli altri mi tranquillizzavano, ma dopo le prime risposte che non arrivavano mi sono un po’ chiusa in me stessa. Ero io a mandare le candidature, senza dire a nessuno a chi le inviassi e senza dare feedback a nessuno. Solo più tardi ho capito che questo atteggiamento mi stava demoralizzando: così sono passata dal mandarle ogni giorno, a una volta a settimana, poi una volta al mese, fino a smettere del tutto».
Quando lo studio non basta
La frustrazione e il senso di sconforto iniziano a prendere il sopravvento, insinuandosi in ogni momento della sua quotidianità.
«Mi sentivo regredita sotto ogni punto di vista, perché ero tornata a casa e, in un certo senso, a dipendere un po’ dai miei genitori. Non era la carriera da film che mi ero immaginata. Il mio problema è che so esattamente dove voglio arrivare, e non riuscirci è ancora peggio. Vorrei lavorare come project manager in un dipartimento marketing di una grande azienda, vivere quella vita caotica di gestire i problemi di tutte le persone».
La dissonanza tra il punto il cui avrebbe dovuto essere secondo le sue aspettative e il punto in cui realmente è, le presenta il conto.
«Non ritenevo di potermi lamentare. Avevo un lavoro e, comunque, ero molto giovane; l’avevo trovato subito e non c’erano problemi gravi su cui lamentarsi. Però questo non cambiava il fatto che non ero soddisfatta. Nonostante lo abbia tenuto per me a lungo, a un certo punto sono esplosa… anche se i miei genitori un po’ se lo aspettavano. Ero io che non volevo ammetterlo, ma non era una situazione destinata a durare molto».
In quel momento difficile, è il padre a proporle di iscriversi a un master, una possibilità che fino ad allora Margherita non aveva mai valutato.
«È una cosa abbastanza banale: si sa che dopo l’università può capitare un master, ma non ci avevo mai pensato, perché sotto il punto di vista dello studio avevo già dato il 100%. E poi, non l’avevo mai preso in considerazione anche perché sapevo che i master costano molto. Il fatto che sia stata un’idea sua e non mia mi ha fatto pensare che, forse, sarebbe stata una possibilità economica che avremmo potuto affrontare».
Il piano B
Margherita sceglie il Master in Marketing, Comunicazione e Digital Strategy della 24Ore Business School, inizialmente dal costo di 16.000 euro, poi ridotto a 11.000 grazie a una borsa di studio. Per riuscire a sostenere questa esperienza, però, ha messo a punto un piano ben definito.
«I soldi guadagnati in questi due anni di stipendio sono totalmente destinati a vivere a Roma, quindi a pagare l’affitto, che comunque è molto alto. Per quanto riguarda il master, ho trovato delle convenzioni con il master stesso, con alcune banche che offrono un prestito di merito. Questo prestito viene riconosciuto a chi raggiunge un certo punteggio — se non sbaglio, 105 — e non richiede garanzie, se non la possibilità di restituirlo dopo il master, quando si inizia a lavorare. Prevede anche un tasso fisso del 2%, quindi è molto vantaggioso, soprattutto per i neolaureati».
La decisione di investire in un master, indebitandosi, è la traduzione economica di un bisogno di “ri-allineare” aspettative e realtà. Negli ultimi anni si sono diffusi i prestiti di merito con tassi calmierati e rimborso post-inserimento lavorativo, proprio per sostenere transizioni come questa — ma la letteratura sottolinea che questi master funzionano davvero quando il percorso formativo è ben connesso alle imprese e ai tassi occupazionali del settore. E infatti ho un’ultima domanda per Margherita: come si sente a spendere tutto ciò che ha risparmiato per continuare a formarsi?
«Mi sveglio pensando “chi me l’ha fatto fare” e vado a dormire con lo stesso pensiero. Mi sento in colpa, nonostante stia investendo questi soldi nella mia formazione. Spero davvero che possa cambiare la mia vita e aprirmi nuove prospettive. È un grande peso, però il fatto di farlo completamente da sola mi alleggerisce un po’: so che i miei non stanno sacrificando nulla. Quindi, se dovesse andare male, ho tutta la vita per potere recuperare i soldi spesi».
«D’altra parte, sono molto spaventata: sto lasciando un posto un po’ sicuro, anche se non è quello che desideravo davvero, per qualcosa che non mi garantisce nulla e di cui non so concretamente come sarà l’esperienza, se mi piacerà o se andrà bene. In questo momento, è più l’80% paura e il 20% emozione».