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di Rame

Quando ho iniziato a essere gentile con me stessa, è migliorato anche il mio rapporto con i soldi

Fin dall’infanzia, Matilde ha sviluppato un rapporto con il denaro segnato dalla scarsità e dal bisogno di controllo. Anche da adulta, pur essendo economicamente indipendente, continua a vivere i soldi con ansia e rigore, considerandoli più come vincoli da rispettare che come strumenti di libertà. Col tempo, però, ha iniziato a trasformare questo approccio, imparando a riconoscere i propri desideri e a immaginare un futuro costruito secondo le proprie scelte.

Tempo di lettura: 13 minuti

paura di spendere
Matilde

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«Io sono sempre stata molto attenta e oculata, adesso però ho imparato a concedermi dei piaceri. Per esempio, quando ero all’università, ogni volta che prendevo 30 mi premiavo con una pizza; se invece prendevo anche solo 29, ero capace di digiunare per punirmi, perché ritenevo di non essere stata abbastanza brava. Ho sempre avuto un sistema punitivo molto rigido, anche con i soldi: pensavo di non meritare di spenderli, perché magari il giorno dopo avrei potuto averne bisogno per risolvere un problema. Oggi il mio rapporto con il denaro è migliorato, ma è stato un percorso piuttosto difficile».

Fin dall’infanzia, il rapporto di Matilde con il denaro è segnato da scarsità e controllo. Anche una volta raggiunta l’indipendenza economica, la paura di sprecare, l’ansia di non avere abbastanza, la spingono a vivere i soldi più come un campo di disciplina che come uno strumento di libertà. Col tempo, però, questo schema punitivo ha iniziato a trasformarsi, lasciando spazio alla possibilità di ascoltare i propri desideri e di guardare lontano, verso un futuro costruito secondo le proprie regole.

Un’infanzia segnata dalla violenza

Matilde ha 33 anni e lavora come impiegata in un’azienda di Firenze. È originaria di Prato, ma il suo percorso l’ha portata a spostarsi più volte: da Roma, a Milano poi a Bologna, per poi approdare di nuovo in Toscana. Suo padre è un pubblico ufficiale, la madre una casalinga, ed entrambi provengono da un piccolo paese contadino della provincia di Caserta. Dentro le mura domestiche, l’infanzia di Matilde è segnata da paura e sopraffazione.

«Ho avuto un padre molto violento, un padre padrone, che rinfacciava perfino i beni di prima necessità. Se mia madre, che era casalinga, faceva una spesa un po’ più consistente del solito — magari per comprarci un Kinder Cereali — subito le veniva fatto pesare. Oppure, io fino ai dieci anni ho praticato ginnastica ritmica, ma anche quella spesa ci veniva rinfacciata come soldi buttati».

Matilde ha due sorelle, una di un anno più grande e una più piccola di cinque. A separarla da loro una profonda distanza emotiva.

«Mio padre mi diceva spesso che non sarei dovuta nascere, che ero essenzialmente un preservativo bucato. Portavo addosso la colpa di non essere stata desiderata, a differenza delle mie sorelle, che invece erano state molto volute e ricercate. Io ero l’inciampo nel percorso della vita relazionale dei miei genitori, la bocca in più da sfamare. Quindi, mi sono resa conto molto presto che i soldi erano qualcosa di importante, ma da bambina ricordo che non volevo che mi si comprasse nulla».

«Con il tempo ho sviluppato un atteggiamento di silenzio: restavo in un angolo, ferma, zitta e buona. Non chiedevo mai ciò di cui avevo bisogno, perché sapevo che avrei in qualche modo disturbato».

A esercitare il controllo sulle finanze familiari è sempre il padre. È lui a decidere come e quando il denaro può essere speso.

«Quando mia madre si è impuntata per lavorare, ha fatto la commessa per quasi un anno. Ogni volta che tornava a casa, però, mio padre le rinfacciava di non essere riuscita a occuparsi delle faccende domestiche o di noi, e si lamentava del fatto che lui dovesse preparare la cena. C’era sempre questa violenza reiterata nei suoi confronti: non era abbastanza come casalinga, e non era abbastanza neppure come lavoratrice. Ricordo bene la sera in cui mio padre si arrabbiò con lei e le sequestrò il bancomat. Mia madre aveva solo qualche contante e doveva farci vivere con quelli fino allo stipendio successivo, che per di più era davvero irrisorio».

Quel lavoro di commessa dura molto poco.

«L’ha lasciato perché mio padre era molto violento e picchiava anche noi. E una volta mia sorella maggiore è andata da lei e le ha detto che noi non ce la facevamo più; perché ovviamente la violenza, che era anche molto forte anche su di noi, non era più schermata da mia madre, quindi era molto pesante da gestire».

Come spesso accade negli episodi di violenza, la vittima tende a giustificare o a legittimare in qualche modo la violenza subita.

«Ogni volta che lui ci picchiava o succedeva qualcosa di grave, c’era sempre tanta vergogna. Era forte quella retorica secondo cui i panni sporchi si lavano a casa propria. Quindi non si diceva nulla, bisognava tenerlo nascosto e vergognarsene. Mia madre, soprattutto, se ne vergognava molto. Ed è comprensibile, anche perché mio padre le ripeteva ogni giorno che era stupida, che era cretina. Secondo me, lei si sentiva anche un po’ idiota a tenerselo e quindi si raccontava che noi in qualche modo avevamo bisogno di lui».

La prima volta che Matilde prova a chiedere aiuto fuori dalle mura domestiche, scopre che la società intera preferisce non vedere o non dare credito alle storie di violenza.

«Andai da questa mia coordinatrice di classe chiedendo aiuto, e lei mi rispose semplicemente che dovevo studiare, impegnarmi di più, che non potevo inventarmi scuse solo perché non ero brillante in greco o avevo problemi in casa. Io piangevo tantissimo, perché per me era una vera richiesta d’aiuto. E invece non sono stata ascoltata».

L’elaborazione del trauma

Quando Matilde ha 16 anni, un episodio di violenza particolarmente grave convince la famiglia a mandare via di casa il padre. Si avviano così le pratiche per il divorzio, seguite anche da una denuncia che però, undici anni dopo, verrà archiviata. Prima di andarsene, l’uomo svuota il conto corrente comune con la madre.

«Ci ha lasciati con zero euro sul conto in banca, e da lì è cominciato un periodo molto difficile, perché avevamo spese a cui non sapevamo come far fronte. Ovviamente, essendo lui una persona tutelata, aveva trovato degli avvocati che fecero firmare a mia madre un accordo consensuale di divorzio con notevoli svantaggi economici, incluso un mantenimento irrisorio. Di conseguenza, facevamo molta fatica a gestire tutto».

Il mantenimento che il padre versa è di circa 200 euro a testa. Per far fronte alle spese, la madre torna a lavorare, alternando ruoli da operaia in fabbrica a domestica, badante e shampista, facendo di tutto per sostenere la famiglia. Anche Matilde e la sorella maggiore, ancora minorenni, cominciano a lavorare.

«Per noi era importante sostenerci e mantenerci. Io, per esempio, metà di quello che guadagnavo lo davo a mia madre, perché per me era ovvio dover contribuire al pagamento del condominio o di alcune spese e così via».

Oltre alle difficoltà economiche, con l’assenza del padre emergono i primi traumi emotivi. Matilde e le sorelle si trovano a dover gestire un dolore profondo che non sanno come esprimere. I segnali della sofferenza iniziano a manifestarsi anche sul piano fisico.

«Sono stata bulimica e anoressica tra i 13 e i 29 anni. In quel periodo ricordo che non riuscivo a ingerire nulla. Andavo a scuola piangendo, mi appoggiavo con la testa sul banco e piangevo per sei o sette ore, e poi tornavo a casa e mi sdraiavo sul letto, incapace di studiare. Dopo circa un mese, è emerso tutto il dolore che non avevamo avuto modo di affrontare, perché eravamo troppo concentrate a sopravvivere».

Per provare a dare un senso a ciò che ha vissuto, Matilde inizia ad andare in terapia. Tuttavia, il tabù che circonda la psicoterapia crea un muro tra lei e la madre, che non capisce a cosa l’analisi possa aiutarla.

«Per mia mamma è assolutamente normale subire violenza, quindi è molto difficile dirle: “Mamma, questa cosa non è normale”. Rendersi conto che stai subendo un’ingiustizia è molto più difficile che subirla passivamente; perché quando capisci che si tratta di un’ingiustizia e non hai modo di ottenere rivalsa, diventa molto più difficile accettarla».

La violenza in famiglia spesso si trasmette di generazione in generazione, attraverso regole e comportamenti che legittimano la sottomissione e il silenzio.

«Il punto è che mia nonna ripeteva sempre: devi dire sempre sì a tuo marito, altrimenti ti picchia. Lo diceva anche a me e alle mie sorelle quando eravamo piccole: “Quando vi fidanzate, dite sempre sì ai vostri fidanzati, altrimenti poi vi picchiano”. Quindi, c’era sempre questa retorica secondo cui non puoi essere veramente te stessa, oppure devi trovare un modo per esserlo senza farlo vedere».

La via per l’emancipazione

Finite le superiori, Matilde decide di iscriversi al Dams di Bologna e, dopo essersi informata, ottiene una borsa di studio. Continua a vivere con la madre e la sorella minore, mentre la sorella maggiore si trasferisce con il compagno.

«Nello studio ho sempre trovato la mia forma di autodeterminazione e il desiderio di cambiare la mia condizione. Ho sempre pensato: devo sapere tutto, perché se so tutto posso essere libera. Nessuno potrà raccontarmi bugie, e io non dovrò credere a quelle degli altri».

Finita la Triennale, all’età di 22 anni, Matilde capisce di essere lesbica. La scoperta, però, si scontra con l’incomprensione della madre, incapace di accettare il suo orientamento sessuale.

«A mia mamma davo fastidio perché rappresentavo l’altra, la donna che non dovresti essere: quella tatuata, con il septum, quella che altri criticano. Non aderendo al modello tradizionale di femminilità, secondo lei non sarei mai stata veramente felice».

Matilde decide così di trasferirsi a Roma, dove trova lavoro in un negozio di abbigliamento. Guadagna 800 euro al mese a fronte di 400 di affitto. Dopo qualche tempo si appassiona al marketing e si iscrive alla Magistrale in Scienze della Comunicazione, continuando a lavorare. L’università è finanziata in parte da lei e in parte dal padre, mentre Matilde destina i suoi 200 euro di mantenimento alla madre. Quelli romani, sono anni molto difficili.

«A Roma non uscivo quasi mai: studiavo, lavoravo e basta. Uscivo una volta ogni tre mesi con qualche amica che ero riuscita a farmi nel tempo. È stata una vita molto sofferta e solitaria».

All’università Matilde incontra una professoressa destinata a segnare una svolta. Per la prima volta comprende che ciò che aveva vissuto fino a quel momento ha un nome: violenza economica.

«Per me è stato qualcosa di incredibile, perché in quel momento la mia storia ha preso una piega diversa. Non era più solo il caso isolato di violenza, una questione privata, ma era diventata una questione sistemica e collettiva. Per me è stato importante anche per non vergognarmi di quello che mi era successo».

Dopo la laurea, Matilde entra subito in un’agenzia televisiva con un contratto di apprendistato e uno stipendio di 1100 euro. Ma l’esperienza dura poco: è costretta a lasciarla a causa di episodi di mobbing legati al suo orientamento sessuale. In quel momento la sua compagna vive a Milano e Matilde decide di raggiungerla. Non ha ancora un lavoro, così è la fidanzata a farsi carico dell’affitto, nell’attesa che lei riesca a sistemarsi.

«Io però provvedevo a fare la spesa, pagavo le bollette e cucinavo tantissimo. Cercavo in ogni modo di “sdebitarmi” del fatto che lei pagasse l’affitto, perché ho sempre sviluppato questa idea: non devo essere in debito con nessuno, nemmeno per una caramella. Altrimenti chi mi ha dato qualcosa può esercitare un potere su di me, rinfacciandomi persino quella piccola cosa».

Dopo un paio di mesi, Matilde trova lavoro come tecnica informatica con uno stipendio di 1300 euro. Il carico di lavoro è pesante, ma per la prima volta ha la sensazione di essere arrivata a un traguardo. Eppure quei soldi, faticosamente guadagnati, non riesce a spenderli.

«Avevo paura di spenderli. Per me era tutto molto controllato. Da quando sono andata via di casa, ho sempre avuto un’agendina in cui scrivo ogni giorno tutto ciò che esce e tutto ciò che entra, e faccio i conti a fine mese».

La precarietà che si ripete

Con l’arrivo della pandemia, Matilde rompe con la sua compagna e, grazie allo smartworking, decide di rientrare a Prato, nella casa di famiglia rimasta vuota dopo che la madre è tornata al sud per prendersi cura del padre malato. Alla fine dell’emergenza sanitaria, però, sceglie di licenziarsi.

«Ero spaventatissima dalla vita a Milano, perché facendo due calcoli avrei dovuto spendere metà dello stipendio solo in affitto. Guadagnavo 1.400 euro al mese e le stanze costavano già 700, 800 euro. Alla fine mi rimaneva così poco che non ne valeva nemmeno la pena».

Matilde trova un nuovo lavoro interamente da remoto e si trasferisce a Bologna, dove inizia una nuova relazione. Dopo qualche tempo, però, la nostalgia per la Toscana si fa sentire e la coppia decide di spostarsi a Firenze.

Dopo otto mesi, il contratto di Matilde non viene rinnovato: si apre così un periodo difficile, segnato dalla perdita di punti di riferimento e dalla frustrazione di non riuscire a trovare un lavoro capace di stimolarla davvero.

«Io posso fare questi lavori per un anno e mezzo o due, ma poi divento insofferente, perché non sono quelli che mi motivano e mi fanno andare avanti. Sono una persona creativa: scrivo, mi piace disegnare, amo l’arte e la cultura, ma non riesco a trovare un lavoro in questo ambito che sia abbastanza remunerativo rispetto ad altri lavori».

Grazie ai risparmi accumulati, Matilde decide di finanziare un Master in Project Management. Eppure, anche questa volta, non riesce a concedersi la libertà di spendere quei soldi con serenità.

«Ho speso 3.000 euro e mi sono fustigata per un mese, pensando: “Cavolo, ho speso 3.000 euro per un master, ma cosa mi è saltato in testa? Quei soldi potevano servirmi per tante altre cose, perché li ho spesi?”. Mi sono quindi flagellata, ma c’era la mia compagna che ogni volta che cominciavo a farlo mi diceva: “È un master, non li hai buttati in mezzo alla strada, li hai comunque investiti in qualcosa”. Perciò, sto migliorando, però è dura».

La difficoltà di risparmiare

Oggi Matilde lavora per un’azienda toscana e porta a casa 1.600 euro al mese. Nonostante la fatica che fa a spenderli, non riesce neppure a metterne da parte.

«Vivo con lo stipendio facendo grandi pirouette e salti mortali ogni giorno. Quando arriva, mi metto a fare i conti con la calcolatrice: l’affitto 410 euro, il finanziamento 178, poi le spese fisse, le bollette di gas e luce… e poi la spesa settimanale. Alla fine faccio la somma: quanto mi rimane? Non lo so, 100 euro. Allora cerco di metterli subito da parte. Ma ogni volta che li metto da parte, succede qualcosa che mi impedisce di risparmiarli davvero: si rompe la frizione della macchina, devo fare una visita imprevista, e così via».

Il suo rapporto con i soldi, intanto, sta cambiando. Merito della sua compagna e della psicoterapia.

«Per fortuna ho la mia compagna, che è una spendacciona, e così stiamo imparando a gestire le spese insieme: io controllo le sue spese pazze e lei controlla la mia ansia. Quindi sì, il mio rapporto con i soldi è migliorato, ma è stato un percorso piuttosto duro, che ha coinciso con la terapia e con l’inizio del mio percorso per essere più gentile con me stessa. Quando ho cominciato a trattarmi meglio, è migliorato anche il rapporto con i soldi».

Il prossimo passo è iniziare a vedere il denaro con occhi diversi.

«Io non voglio essere ricca, voglio solo uno stipendio che mi permetta di non dover pensare continuamente ai soldi, di non avere l’ansia di non farcela. E poi, vorrei che i soldi avessero un’aurea positiva, mentre per me hanno sempre avuto un’aura un po’ negativa perché per me i soldi sono spesso collegati al potere, a motivazioni irrazionali, alle guerre: hanno sempre qualcosa di negativo. Li desidero moltissimo, ma allo stesso tempo mi sento in colpa per volerli, perché avere tanti soldi, secondo me, può rendere le persone più cattive, più avide, più desiderose di potere. Non riesco ancora a vederli con un’aurea positiva».

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